Irene Scordamaglia* e Laura Pagliuca**

Stalking: la normativa di contrasto

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1. Le ragioni di politica criminale
L’art. 612 bis del codice penale punisce con la reclusione da sei mesi a cinque anni chiunque, con condotte reiterate, minaccia o molesta taluno in modo da cagionare un perdurante e grave stato di ansia o paura, ovvero da ingenerare un fondato timore per l’incolumità propria o di un prossimo congiunto o di persona al medesimo legata da relazione affettiva ovvero da costringere lo stesso ad alterare le proprie abitudini di vita.

La disposizione – introdotta nel nostro ordinamento dal decreto legge n. 11 del 23 febbraio 2009, convertito in legge n. 38 del 23 aprile 2009, recante “misure urgenti in materia di sicurezza pubblica e di contrasto alla violenza sessuale” – disciplina la fattispecie di “atti persecutori” e riconosce rilevanza penale a quei comportamenti, riconducibili al cosiddetto stalking, che, precedentemente non la avevano. Si tratta di un fenomeno di peculiare allarme sociale, la cui offensività si manifesta in intrusioni seriali e reiterate nella sfera della vita della vittima: ed è proprio la serialità che determina “un’autonoma e riconosciuta offesa” al bene giuridico tutelato. 

La scelta del legislatore di delineare una disciplina ad hoc nasce sicuramente dall’improrogabile esigenza di punire condotte prive del requisito della violenza, in quanto la caratteristica tipica degli atti persecutori è proprio la mancanza di quell’elemento che ne consentirebbe la sussunzione nelle tradizionali fattispecie di percosse, violenza sessuale, lesioni personali, violenza privata, etc.. 

Al riguardo giova sottolineare che l’intervento legislativo di cui alla premessa si è reso necessario non soltanto nell’assenza di norme incriminatrici specifiche che attribuissero rilevanza penale agli atti persecutori, ma anche, e soprattutto, nella assoluta inadeguatezza, in termini di effettività della tutela, delle fattispecie già esistenti – in particolare di quella di violenza privata di cui all’art. 610 cp e di quella di molestia o disturbo alle persone di cui all’art. 660 cp – che, in mancanza di una disciplina ad hoc, venivano utilizzate per punire i comportamenti di stalking.

In particolare, a rendere difficoltosa la riconducibilità degli atti persecutori al delitto di violenza privata è la caratteristica di reato “a forma vincolata” di quest’ultimo, nel senso che, ai fini della sua configurabilità è necessaria la realizzazione di violenza o minaccia da parte dell’autore e il conseguente comportamento della vittima che sia “costretta a fare, tollerare od omettere qualche cosa”; lo stalking, diversamente, non presuppone alcun comportamento della persona offesa come conseguenza della condotta persecutoria dell’autore e, soprattutto, non richiede che la condotta del soggetto attivo sia caratterizzata dalla violenza o dalla minaccia. 

Per ciò che concerne, invece, la contravvenzione di molestia o disturbo alla persona, l’insufficienza della fattispecie rispetto alle specifiche esigenze di repressione è da individuare, in primo luogo, nella diversità del bene giuridico tutelato, atteso che l’art. 660 cp è posto a presidio dell’ordine pubblico e della pubblica tranquillità, con la conseguenza che la fattispecie contravvenzionale è di difficile applicabilità in relazione a condotte che hanno un’incidenza offensiva, pressocchè esclusiva, sul piano degli interessi della persona alla libertà morale e alla libertà di autodeterminazione; senza contare che, ai fini della configurabilità del reato di molestia, è necessario che le condotta venga esercitata in un luogo pubblico o aperto al pubblico, rimanendo, quindi, penalmente irrilevanti gli atti realizzati in luoghi privati (come l’abitazione della vittima). A ciò deve aggiungersi che la sanzione prevista dall’art. 660 cp (l’arresto fino a sei mesi o l’ammenda fino a cinquecentosedici euro) è evidentemente “troppo modesta per rivelarsi sufficientemente dissuasiva in termini general preventivi, anche perché la configurazione della fattispecie come contravvenzione non solo ne riduce i termini di prescrizione, ma preclude anche l’applicabilità delle misure cautelari, che potrebbero, invece, in fase endo-processuale, fornire un’adeguata tutela alla vittima, proteggendola da contatti o incontri non voluti con lo stalker”. 

2. La struttura del reato

2.1 Il bene giuridico e la clausola di sussidiarietà
Nel codice penale, l’art. 612 bis è collocato nel capo intitolato “delitti contro la libertà individuale” e nella sezione dedicata ai “delitti contro la libertà morale”. 

Secondo la dottrina, tuttavia, si tratta di un reato (eventualmente) plurioffensivo, posto a tutela della libertà di autodeterminazione della vittima – sicuramente compromessa da condotte che inducono la persona offesa a modificare le proprie abitudini di vita -, della sua tranquillità personale e della sua salute mentale e fisica, inevitabilmente intaccate dalle continue e assillanti molestie idonee a cagionare nella vittima “un grave e perdurante stato di ansia e paura” ovvero “un fondato timore per la propria incolumità”. 

Proprio in virtù della ampia gamma dei beni giuridici tutelati dalla norma, si è pure criticata la scelta del legislatore di inserire, nell’incipit dell’art. 612 bis cp, la clausola di sussidiarietà, in forza della quale la disposizione si applica “salvo che il fatto non costituisca più grave reato”, posto che nella stessa si potrebbe annidare il rischio di vanificare l’esigenza di politica criminale di attribuire una diversa e specifica rilevanza al delitto di stalking per effetto dell’assorbimento della nuova incriminazione in quelle, più gravi, di violenza sessuale o di lesioni personali, le quali potrebbero non contenere parti del suo elemento materiale o non esaurire il disvalore intrinseco all’evento. Si è quindi concluso nel senso che “la clausola di sussidiarietà, in quanto relativamente indeterminata, non può trovare un’indiscriminata e aprioristica applicazione, che risulterebbe in definitiva irragionevole”.

L’applicazione della clausola di sussidiarietà presuppone, quindi, che la fattispecie assorbente includa, dal punto di vista del bene giuridico, anche quello tutelato dalla fattispecie sussidiaria, in quanto la sua ratio non si esaurisce nel solo elemento formale della gravità della pena irrogata, ma è riconducibile ad una valutazione di tipo sostanziale; donde, ove manchi una coincidenza tra beni giuridici tutelati dalle norme incriminatrici, non potrà esserci alcun assorbimento, in quanto ciascuna fattispecie “è manifestazione di un distinto disvalore meritevole di autonoma punizione” e dovrà essere riconosciuto un concorso materiale tra reati.

Ove ricorrano, invece, le fattispecie di cui agli artt. 612 e 660 cp, che puniscono la minaccia e la molestia, posto che il legislatore ha utilizzato questi termini al fine di descrivere la condotta tipica integrante il reato di stalking, stante l’identità dell’elemento materiale, va riconosciuto il loro assorbimento strutturale all’interno della fattispecie di atti persecutori. 

2.2 La condotta tipica
L’elemento caratterizzante il delitto di atti persecutori è rappresentato dalla reiterazione delle condotte poste in essere dal soggetto attivo.

Anche a prescindere dall’utilizzo del termine “reiterate”, è la stessa rubrica della norma “atti persecutori” ad implicare una molteplicità di comportamenti molesti: non soltanto in virtù dell’utilizzo del plurale, ma anche per lo stesso aggettivo “persecutori” che, derivando dal verbo latino persequi, che significa inseguire, evoca una sistematicità delle condotte, un’azione che comporta persistenza e durevolezza nel tempo. Ed è proprio nella serialità e nella ripetitività delle condotte che risiede quel disvalore ulteriore che la legge riconnette al reato di cui all’art. 612 bis. 

La valorizzazione dell’elemento della reiterazione consente di qualificare il delitto di atti persecutori come reato abituale, che, in quanto tale, ha suscitato questioni di diritto intertemporale nell’ipotesi in cui solo una parte delle condotte integranti l’elemento oggettivo del reato risultavano poste in essere dopo l’introduzione della norma incriminatrice, discutendosi, in tali casi, della sorte di quelli tenuti precedentemente. Il problema è stato risolto dalla giurisprudenza di legittimità nel senso che è configurabile il delitto di atti persecutori nella ipotesi in cui, pur essendo la condotta persecutoria iniziata in epoca anteriore all’entrata in vigore della norma incriminatrice, si accerti la commissione reiterata, anche dopo l’entrata in vigore del dl 23 febbraio 2009, n. 11, conv. in l. 23 aprile 2009, n. 38, di atti di aggressione e di molestia idonei a creare nella vittima lo “status” di persona lesa nella propria libertà morale, in quanto condizionata da costante stato di ansia e di paura. 

In particolare, il reato abituale de quo è configurabile sia come proprio, poiché gli atti della serie, se singolarmente considerati, possono essere pienamente leciti, innocui (come l’invio di una lettera d’amore o di un mazzo di fiori), sia come improprio, ove il singolo atto integri già di per sé una condotta penalmente rilevante (come avviene nel caso in cui il soggetto agente ponga in essere delle vere e proprie minacce, riconducibili alla fattispecie incriminatrice di cui all’art. 612 cp), in quest’ultimo caso, la serialità del comportamento incidendo ulteriormente sul disvalore proprio del singolo atto.

Nel configurare la reiterazione come elemento costitutivo della fattispecie, il legislatore ha omesso di stabilire vincoli precisi, in termini di durata minima della campagna persecutoria e di numero minimo degli episodi idonei a delineare la fattispecie penalmente rilevante. Tale scelta è stata criticata da quanti hanno rinvenuto in tale omissione un inaccettabile abbassamento della soglia di tassatività e determinatezza della fattispecie, ma sostenuta da chi ha ritenuto tale mancanza come volontaria e riconnessa alla obiettiva difficoltà di individuare a priori la condotta penalmente rilevante in termini quantitativi e temporali, rendendo, così, la nuova fattispecie più malleabile rispetto alla pressoché infinita gamma delle possibili manifestazioni del fenomeno. 

Nella giurisprudenza di legittimità si è affermato, in proposito, che anche due sole condotte di minaccia o di molestia, in successione tra loro, possono integrare il requisito della reiterazione, dovendosi rilevare come il termine “reiterare” denoti la ripetizione di una condotta una seconda volta, ovvero più volte con insistenza”. Seppure tale linea interpretativa sembri valorizzare il semplice dato letterale, in realtà essa, nell’elaborazione del concetto di reiterazione, attribuisce prioritaria rilevanza al principio di offensività, inteso quale criterio per differenziare le condotte penalmente rilevanti da quelle irrilevanti. In quest’ottica, dunque, due sole condotte possono rappresentare quella reiterazione necessaria ai fini della configurabilità del reato, a condizione che gli atti posti in essere dall’autore siano tali da cagionare gli eventi tipizzati, perché caratterizzati da una carica offensiva talmente incisiva da scalfire l’equilibrio psico-emotivo della vittima, determinando la lesione del bene giuridico cui la fattispecie incriminatrice è posta a presidio. 

Per quanto riguarda la durata minima necessaria e sufficiente per ritenere integrato il requisito della reiterazione, secondo parte della dottrina, l’idoneità offensiva dello stalking rispetto ai beni giuridici tutelati richiede che le condotte si ripetano “per un tempo apprezzabile, al punto da far sentire la vittima perseguitata” e che l’effettiva offensività delle condotte derivi dalla loro ripetizione “protratta in un significativo lasso di tempo”. In senso contrario, da parte della giurisprudenza di legittimità si è evidenziato come sia del tutto irrilevante che gli atti siano concentrati in un intervallo di tempo assai ristretto, essendo sufficiente che gli stessi non si realizzino nell’ambito del medesimo contesto spazio temporale e a condizione, anche in questo caso, che la reiterazione possa dirsi causa effettiva degli eventi tipizzati dalla norma, sulla base di un giudizio ex post . Ancora una volta, dunque, la concreta offesa al bene giuridico tutelato viene utilizzata dal Supremo Consesso quale criterio di valutazione della condotta penalmente rilevante, con la conseguenza che, indipendentemente dalla durata, più o meno lunga, della reiterazione, il reato può dirsi configurato ove si accerti l’avvenuta lesione del bene giuridico protetto, attraverso la prova del nesso eziologico tra condotta ed evento tipico. 

Poiché, nella descrizione della condotta tipica, il legislatore ha fatto espresso riferimento alla minaccia e alla molestia, in dottrina si è argomentato nel senso che la minaccia e la molestia, più che caratteristiche della condotta, rappresentino degli eventi intermedi, posto che gli eventi finali sono stati tipizzati nel “grave e perdurante stato di ansia e paura”, nel “fondato timore per la propria incolumità” e nella costrizione al “cambiamento delle abitudini di vita”. La minaccia è, infatti, integrata da una condotta idonea a prospettare un male futuro e ingiusto, la cui concreta verificazione dipende dalla volontà del soggetto agente, mentre la molesta sta ad indicare il fatto dell’alterare, in modo fastidioso od inopportuno l’equilibrio psichico di una persona normale. 

Tuttavia, le suddette condotte non si dimostrano in grado di contenere, in modo appagante, il profilo fenomenologico, riconnesso agli atti persecutori, né l’effettivo disvalore. Anzi, è proprio l’inadeguatezza di tali strumenti che ha spinto il legislatore a dettare una disciplina ad hoc per la fattispecie di stalking. Ne consegue che, onde evitare che la nuova fattispecie di cui all’art. 612 bis cp finisca per essere una mera duplicazione delle fattispecie di cui agli artt. 612 e 660 cp, è da escludersi che, per la realizzazione del delitto di atti persecutori, sia necessario che le condotte di minaccia e di molestia presentino tutti gli elementi costitutivi individuati dalle rispettive norme incriminatrici.

Il soggetto passivo del delitto di stalking può essere chiunque, posto che la norma utilizza il termine “taluno”. A ben vedere, però, il reato si configura anche nell’ipotesi in cui le condotte siano rivolte, non direttamente alla persona offesa, ma indirettamente nei confronti di terzi. In questa eventualità, il reato può dirsi integrato a condizione che la condotta, ancorché realizzata nei confronti di terzi, abbia provocato nella vittima uno stato di ansia e paura, un fondato timore per la propria incolumità, o l’abbia indotta a mutare le proprie abitudini di vita e nei limiti in cui il soggetto attivo agisca nella consapevolezza che la persona offesa certamente sarà posta a conoscenza della sua attività intrusiva e persecutoria. Nell’ipotesi in cui, al contrario, l’autore coinvolga involontariamente anche una terza persona, potrà integrarsi un’ipotesi di aberratio ictus plurilesiva.

 2.3 L’evento
La giurisprudenza di legittimità è pacifica nel configurare il delitto di atti persecutori come un reato di evento, posto che, ai fini dell’integrazione della fattispecie tipica, è richiesta la verificazione di almeno uno degli eventi descritti in via alternativa dalla norma incriminatrice, i quali si identificano con il momento consumativo del reato. 

Va però specificato che una parte, seppur minoritaria, della dottrina, facendo leva sulla locuzione “in modo da”, contesta l’inquadramento del reato di stalking tra le fattispecie di reato di evento, ritenendo che si tratti di un reato di pericolo concreto, per la cui configurabilità sia sufficiente l’idoneità della condotta rispetto alla causazione dell’evento, indipendentemente dalla concreta verificazione di quest’ultimo. 

In particolare, tale orientamento utilizza l’argomento del problematico accertamento in sede di giudizio dei primi due eventi tipizzati dalla norma, che si configurano come eventi meramente psicologici e a carattere prettamente soggettivo. 

La qualificazione del reato come una fattispecie causale, inoltre, complicherebbe le cose anche dal punto di vista dell’accertamento dell’elemento soggettivo, posto che, dovendo gli eventi previsti dalla norma rientrare necessariamente nell’oggetto del dolo, questo verrebbe escluso in tutti quei casi, non rari, in cui il soggetto attivo non ponga in essere le condotte al fine di ingenerare nella vittima il disequilibrio psichico descritto dalla norma, ma agisca nella convinzione che le sue condotte assillanti siano gradite. Quindi, si propone uno spostamento del fulcro della fattispecie incriminatrice sull’idoneità causale della condotta, piuttosto che sugli effetti di quest’ultima sulla psiche della vittima. 

Diversamente si finirebbe per attribuire rilevanza penale a condotte totalmente inidonee, sulla base di una valutazione ex ante, a provocare gli eventi tipizzati, per il solo fatto che la vittima sia particolarmente fragile, o, al contrario, ad escludere la configurabilità del reato, pur in presenza di condotte realmente invasive e persecutorie, ove l’evento psicologico non si realizzi per la particolare forza della vittima. 

La giurisprudenza di legittimità ha, tuttavia, risolto ogni dubbio spostando il fulcro dell’attenzione sulla prova del nesso causale e stabilendo che essa “non può limitarsi alla dimostrazione dell’esistenza dell’evento, né collocarsi sul piano dell’astratta idoneità della condotta a cagionare l’evento, ma deve essere concreta e specifica, dovendosi tenere conto della condotta posta in essere dalla vittima e dei mutamenti che sono derivati a quest’ultima nelle abitudini e negli stili di vita”. 

2.3.1 Il grave e perdurante stato di ansia e di paura
Il primo tra gli eventi descritti dall’art. 612 bis cp ha natura psicologica ed è, perciò, caratterizzato da confini molto labili e difficilmente verificabili.Quanto ad esso, proprio a causa della eccessiva genericità della formula legislativa, in dottrina sono stati hanno avanzato dubbi di costituzionalità della norma rispetto al parametro della tassatività e, al fine di superarli, si è prospettato che, riferendosi al “grave e perdurante stato di ansia e paura”, la nuova fattispecie incriminatrice abbia voluto attribuire rilevanza a vere e proprie forme patologiche caratterizzate da stress e riconoscibili proprio come conseguenza dei comportamenti incriminati, secondo prassi che trovano riscontro nella letteratura medica.

Per quanto a tale ricostruzione vada riconosciuto il pregio di confinare l’elemento causale della fattispecie entro limiti più rispettosi del principio di determinatezza, essa non ha trovato seguito nella giurisprudenza di legittimità. Infatti, il Supremo Consesso ha sancito che “Ai fini della prova dello stato d’ansia o di paura denunciato dalla vittima del reato, il giudice non deve necessariamente fare ricorso ad una perizia medica, potendo egli argomentare la sussistenza degli effetti destabilizzanti della condotta dell’agente sull’equilibrio psichico della persona offesa, anche sulla base di massime di esperienza”. Cionondimeno, in virtù dell’utilizzo dei termini “grave e perdurante”, in funzione tipizzante, bisognerà escludere dall’applicazione della fattispecie, tutti quegli episodi ansiogeni di scarsa entità temporale e fattuale, nonché timori irrazionali prodotti dalla fantasia o dalla suggestione.

2.3.2 Il fondato timore per l’incolumità propria o di un prossimo congiunto
Si tratta dell’evento destinato a coprire buona parte dei reati di stalking: se è vero che il reale pericolo del delitto risiede nell’escalation di aggressione posta in essere dall’autore, è probabile che fra i principali timori vi sia proprio quello per l’incolumità propria o di un prossimo congiunto. Esso non pone particolari problemi di tassatività, ma merita un approfondimento l’utilizzo del termine “fondato”, in quanto il senso della norma cambia a seconda che lo si interpreti in senso oggettivo, come idoneità della condotta, ovvero in senso soggettivo, spostando l’attenzione sul carattere e sulla personalità della persona offesa. A una prima lettura potrebbe sembrare che, attraverso il riferimento alla fondatezza del timore, il legislatore abbia inteso configurare un reato di pericolo, facendo leva sulla idoneità della condotta concretamente posta in essere dallo stalker a ingenerare un giustificato timore in una persona ragionevole. 

Più correttamente, però, in una prospettiva valorizzante dell’elemento causale della fattispecie, il requisito della fondatezza deve essere letto dal punto di vista soggettivo della vittima, attribuendo rilevanza a quelle sofferenze e a quei timori realmente patiti dalla persona offesa come conseguenza delle condotte persecutorie dell’agente, che l’abbiano portata a temere per la propria incolumità e sempre a condizione che l’autore fosse a conoscenza della particolare sensibilità della vittima, approfittandone per rendere più efficacie la sua attività persecutoria. 

2.3.3  L’alterazione delle abitudini di vita 
Il terzo evento alternativo del reato di atti persecutori è caratterizzato – in ciò differenziandosi dai primi due – da una “consistenza materiale”, rappresentata dal dato concreto che la vittima sia costretta, come conseguenza delle condotte persecutorie, a un cambiamento delle proprie abitudini di vita. Nell’individuazione dei mutamenti penalmente rilevanti, in un’ottica di valorizzazione del principio di offensività, pare opportuno accogliere un’interpretazione restrittiva della norma, escludendo dal suo raggio di applicazione quei fatti inoffensivi perché percepiti dalla vittima solo come fastidiosi, quand’anche l’abbiano portata a dei piccoli, ma irrilevanti cambiamenti delle abitudini di vita. 

Perché il reato possa dirsi configurato, quindi, il mutamento delle abitudini di vita della vittima deve apparire come una diretta conseguenza della condotta persecutoria dell’agente: sicché il reato è escluso quando il cambiamento non può ritenersi adottato perché necessario, ma solo perché opportuno e finalizzato ad anticipare pericoli mai manifestatisi sotto una specifica forma riconducibile a quella specifica abitudine di vita che si presume mutata. 

3. L’elemento soggettivo
Ai fini della configurabilità del delitto di atti persecutori si richiede la sussistenza di un dolo generico, consistente: a) nella coscienza e volontà di porre in essere singole condotte, accompagnate dalla consapevolezza che ogni nuovo comportamento si aggiunge ai precedenti, dando vita ad un vero e proprio “sistema di comportamenti assillanti e vessatori”; b) nella coscienza dell’idoneità delle condotte a realizzare uno degli eventi descritti dalla norma. Stante la natura di reato abituale del delitto di atti persecutori, si richiede un dolo unitario, in cui l’intenzione criminosa travalichi i singoli atti che compongono la condotta tipica; tuttavia, secondo pacifica giurisprudenza di legittimità, non si pretende la preesistenza del dolo fin dal primo degli atti posti in essere dall’autore, potendo, questi atti, essere in tutto o in parte anche meramente casuali e realizzati solo ove se ne presenti l’occasione. 

Secondo la Suprema Corte, infatti, il dolo può realizzarsi in modo graduale, non essendo necessario che l’agente si rappresenti e voglia fin dal principio la realizzazione della serie degli episodi. 

Non occorre, in altri termini, una rappresentazione anticipata del risultato finale, ma, piuttosto, la costante consapevolezza, nel progressivo sviluppo della situazione, dei precedenti attacchi e dell’apporto che ciascuno di essi arreca all’interesse protetto.

4. Le circostanze aggravanti
Il secondo e il terzo comma dell’art. 612 bis cp prevedono, rispettivamente, una circostanza aggravante ad effetto comune ed una circostanza aggravante ad effetto speciale. 

Ai sensi del secondo comma la pena, nel minimo di sei mesi e nel massimo di cinque anni, “è aumentata se il fatto è commesso dal coniuge, anche separato o divorziato, o da persona che è o è stata legata da relazione affettiva alla persona offesa ovvero se il fatto è commesso attraverso strumenti informatici o telematici”. Tale disposizione è stata modificata con il dl 14 agosto 2013, n. 93 convertito dalla l. 15 ottobre 2013, n. 119, con cui il legislatore ha inteso accogliere le critiche che erano state mosse dalla dottrina alla norma nella sua originaria formulazione. Prima del 2013, infatti, l’operatività della circostanza aggravante era limitata all’ipotesi del fatto commesso da coniuge legalmente separato, con conseguente irragionevole esclusione del coniuge separato solo di fatto e a quella del fatto commesso da un soggetto che solo in passato avesse avuto una relazione con la vittima, lasciando fuori l’ipotesi della relazione ancora in corso.

La seconda circostanza aggravante ad effetto speciale è prevista dal terzo comma, a mente del quale “la pena è aumentata fino alla metà se il fatto è commesso a danno di un minore, di una donna in stato di gravidanza o di una persona con disabilità di cui all’articolo 3 della legge 5 febbraio 1992, n. 104, ovvero con armi o da persona travisata”. Naturalmente, in questo caso, l’aggravante opererà solo ove le condizioni soggettive della vittima siano conosciute dall’agente ovvero se questi colpevolmente le ignori.

La l. n. 38 del 2009 ha anche riformulato l’aggravante del reato di omicidio doloso prevista al n. 5.1 dell’art. 576 cp, stabilendo la comminatoria dell’ergastolo nell’ipotesi in cui il delitto venga realizzato “dall’autore del delitto previsto dall’articolo 612 bis cp nei confronti della stessa persona offesa”. Stante l’ambiguità della norma, la dottrina ha chiarito che l’aggravante opera solo se la vittima del reato di omicidio sia la stessa degli atti persecutori, evitando così un’interpretazione eccessivamente ampia della norma, che la renda applicabile nel caso in cui le due vittime dei reati non coincidano. Inoltre è necessaria una connessione tra i due illeciti, tale per cui l’omicidio possa essere interpretato come l’ultimo, tragico atto della serie persecutoria. 

Un’ultima circostanza aggravante è prevista dall’art. 8 dl 23 febbraio 2009, n. 11, convertito con modificazioni in legge 23 aprile 2009, n. 38, nel caso in cui gli atti persecutori siano stati commessi da un soggetto che fosse stato in precedenza ammonito dal questore.

5. Tassatività e determinatezza alla luce della sentenza n. 171/2014
Fin dall’entrata in vigore della l. 23 aprile 2009, n. 38, l’art. 612 cp ha destato l’attenzione di dottrina e giurisprudenza sul dato della sua insoddisfacente, perché generica, formulazione letterale. Nonostante gli sforzi del legislatore, la nuova fattispecie incriminatrice si caratterizza per una molteplicità di espressioni e concetti ambigui, generici, polisenso e indeterminati. 

A ben vedere, nella specifica ipotesi del delitto de quo, la oggettiva difficoltà di delineare una figura di reato pienamente rispettosa dei principi di tassatività e determinatezza, dipende dal fatto che lo stalking è un fenomeno estremamente complesso, che pone il legislatore di fronte alla difficile operazione di conciliare la realtà criminologica, spesso polimorfa e caratterizzata dalla reiterazione di singole condotte di per sé inoffensive, con l’esigenza di descrivere una norma che sia conforme ai principi di tassatività, precisione e determinatezza. 

Proprio in considerazione delle perplessità sollevate in dottrina e in giurisprudenza, su eccezione di illegittimità costituzionale sollevata dal tribunale di Trapani (con l’ordinanza del 24 giugno 2013, n. 284), per violazione dell’art. 25, comma 2, Cost, nella specifica forma del principio di determinatezza della norma penale, la Corte Costituzionale, con la sentenza interpretativa di rigetto n. 172 del 2014, ha dichiarato infondata la questione di legittimità dell’art. 612 bis, ritenendo la norma pienamente conforme al principio di determinatezza e fornendo la chiave interpretativa della nuova disposizione. All’uopo, il Giudice delle leggi, richiamata la sentenza n. 282 del 2010, ha suggerito l’utilizzo di un “metodo di interpretazione integrato e sistemico”, per il quale, allo scopo di verificare il rispetto del principio di determinatezza, “occorre non già valutare isolatamente il singolo elemento descrittivo dell’illecito, bensì collegarlo con altri elementi costitutivi della fattispecie e con la disciplina in cui questa si inserisce”. Così, l’elemento della “reiterazione” non va valutato ex se, ma con riferimento ai tre eventi tipizzati dalla norma: la condotta è reiterata – e, dunque, l’estensione temporale degli atti e il loro numero sono sufficienti ai fini della configurabilità del reato – quando il comportamento posto in essere dall’autore abbia determinato almeno uno degli eventi alternativamente previsti dalla fattispecie e la conseguente lesione del bene giuridico protetto. 

A tal proposito la Consulta ha specificato che, per dirsi realizzato il reato, non è sufficiente il semplice verificarsi di uno degli eventi, né basta l’astratta idoneità della condotta a cagionarlo, occorrendo dimostrare il nesso causale tra la condotta posta in essere dall’agente e i turbamenti derivati alla vita della vittima. 

Quanto alla condotta di minaccia e molestia, invece, l’interprete ha a propria disposizione la ricca e robusta tradizione interpretativa elaborata nel corso del tempo da dottrina e giurisprudenza, con riferimento ai delitti di cui agli artt. 612 e 660 cp ed è a questa che deve ricorrere nell’analisi del nuovo delitto di atti persecutori, in quanto essa costituisce la riprova che la descrizione legislativa corrisponde a comportamenti effettivamente riscontrabili e riscontrati nella realtà. 

Per ciò che riguarda il “perdurante e grave stato di ansia e paura” e il “fondato timore”, la Corte Costituzionale ha chiarito che, per quanto siano riferibili alla sfera psichica dell’individuo, essi non appaiono in contrasto con il principio di determinatezza, in quanto suscettibili di essere provati nella realtà e nel processo, attraverso il ricorso a massime di esperienza, nonché attraverso l’osservazione di segni ed indizi comportamentali, desumibili dal confronto tra la situazione pregressa e quella conseguente alle condotte dell’agente. 

Secondo la lettura offerta dal Giudice delle leggi, la prova del disequilibrio psichico della vittima è ricavabile dalle dichiarazioni della vittima, dai suoi comportamenti conseguenti alla condotta, dalle sue particolari condizioni soggettive, purché note all’agente e dunque rientranti nell’oggetto del dolo. Inoltre, l’utilizzo dei termini “grave e perdurante” e “fondato” sono finalizzati a circoscrivere ulteriormente l’area del penalmente rilevante, in modo da escludere la consistenza di “ansie di scarso momento, sia in ordine alla loro durata, sia in ordine alla loro incidenza sul soggetto passivo, nonché timori immaginari o del tutto fantasiosi”. In questo senso, nella individuazione dell’area del penalmente rilevante, la Corte utilizza il principio di offensività quale canone interpretativo indispensabile cui il giudice deve fare ricorso per circoscrivere l’area di tipicità.

Infine, il riferimento all’“alterazione delle abitudini di vita” costituisce un chiaro e verificabile rinvio al complesso dei comportamenti che una persona solitamente mantiene nell’ambito sociale, lavorativo e familiare e che la vittima è costretta a mutare in seguito all’intrusione dello stalker, il quale, necessariamente deve avere consapevolezza ed essersi rappresentato il mutamento cui la persona offesa si sente costretta. 

6. La prova del reato
Quella relativa alla prova dell’evento del reato e del nesso di causalità è tra le tematiche di più acceso interesse nell’ambito della materia degli atti persecutori, perché coinvolge molteplici aspetti di diritto sostanziale, seppur in apparenza spostato nell’ambito processuale.

A tal proposito la giurisprudenza di legittimità è più volte intervenuta ad individuare il livello di prova necessario per poter dire realizzato il delitto di cui all’art. 612 bis cp, esigendo, per ciò che riguarda l’evento consistente nel “grave e perdurante stato di ansia o di paura”, che la relativa dimostrazione sia desunta da elementi sintomatici di tale turbamento psicologico, ricavabili dalle dichiarazioni della stessa vittima, dai suoi comportamenti conseguenti alla condotta posta in essere dall’agente ed anche da quest’ultima, considerando la sua astratta idoneità a causare l’evento e il suo profilo concreto in riferimento alle effettive condizioni di luogo e di tempo dell’azione. 

Come già evidenziato, il giudice non deve necessariamente fare ricorso ad una perizia medica, potendo ritenere sussistenti gli effetti destabilizzanti della condotta dell’autore sull’equilibrio psichico della vittima anche sulla base di massime di esperienza.

Particolarmente interessante è l’orientamento della giurisprudenza di legittimità con riferimento alle dichiarazioni della vittima, posto che, sul tema, ha affermato che: “In tema di valutazione della prova testimoniale, l’ambivalenza dei sentimenti provati dalla persona offesa nei confronti dell’imputato non rende di per sé inattendibile la narrazione delle violenze e delle afflizioni subite, imponendo solo una maggiore prudenza nell’analisi delle dichiarazioni in seno al contesto degli elementi conoscitivi a disposizione del giudice”. Inoltre, ai fini della prova non è necessario che la vittima prospetti espressamente e descriva con precisione uno o più eventi in concreto verificatisi, potendo essa desumersi dal complesso degli elementi fattuali acquisiti e dalla comunicazione non verbale della vittima, della quale deve essere verificata la coerenza con le cause della vulnerabilità.

Va specificato che, anche in tema di atti persecutori, è applicabile il principio di diritto sancito dalle Sezioni Unite Bell’Arte del 2012, a tenore del quale: “Le regole dettate dall’art. 192, comma terzo, cpp non si applicano alle dichiarazioni della persona offesa, le quali possono essere legittimamente poste da sole a fondamento dell’affermazione di penale responsabilità dell’imputato, previa verifica, corredata da idonea motivazione, della credibilità soggettiva del dichiarante e dell’attendibilità intrinseca del suo racconto”. In motivazione la Corte ha specificato che, nell’ipotesi in cui la persona offesa si sia costituita parte civile e vanti un interesse di tipo economico, la cui soddisfazione discende dal riconoscimento della responsabilità dell’indagato, l’indagine circa la sua attendibilità deve essere più penetrante e rigorosa rispetto a quella cui vengono sottoposte le dichiarazioni di qualsiasi testimone.

7. Le condizioni di procedibilità
Ai sensi del terzo comma dell’art. 612 bis, il delitto di atti persecutori è perseguibile a querela della persona offesa, proponibile entro il termine di sei mesi, volutamente prolungato rispetto a quello di tre mesi previsto in via generale dall’art. 122 cp, così da lasciare alla vittima la possibilità di decidere se proporre o meno la querela, posto che, trattandosi di beni personalissimi, come la tranquillità, la libertà morale e l’integrità psichica, spetta in prima battuta alla persona offesa decidere quando le condotte dello stalker siano non più tollerabili. La non condivisibile originaria scelta del legislatore di considerare la querela sempre revocabile atteso che la vittima potrebbe subire pressioni da parte del soggetto attive volte alla remissione della stessa – ha indotto il legislatore, con la più volte citata novella del 2013, ad accogliere le critiche mosse dalla dottrina e a prevedere, da un lato, che l’eventuale remissione di querela possa essere esclusivamente processuale e, dall’altro, che la querela sia irrevocabile se il fatto è stato commesso mediante minacce reiterate nei modi di cui all’articolo 612, comma 2, cp. 

Lo scopo di una irrevocabilità limitata alle ipotesi tassativamente previste, evidentemente, è quello di contemperare due diverse esigenze: per un verso, quella di sottrarre la vittima ad ulteriori pressioni da parte del suo stalker, finalizzate alla remissione della querela; per altro verso, quella di lasciare un margine di libertà alla volontà individuale della stessa, in una materia delicata come quella dei rapporti interpersonali che spesso stanno alla base di questa tipologia delittuosa. 

L’art. 612 bis cp prevede che, in due casi eccezionali, il reato di atti persecutori sia perseguibile d’ufficio: a) se il fatto è commesso nei confronti di un minore o di una persona con disabilità di cui all’articolo 3 della legge 5 febbraio 1992, n. 104; b) se il fatto è connesso con altro delitto per il quale si deve procedere d’ufficio.

Una terza ipotesi di procedibilità d’ufficio è prevista dall’art. 8 d.l. 23 febbraio 2009, n. 11, convertito con modificazioni in legge 23 aprile 2009, n. 38, per cui per il delitto si procede d’ufficio nell’ipotesi in cui gli atti persecutori siano stati commessi da un soggetto che sia stato precedentemente ammonito dal questore ed invitato a tenere un comportamento conforme alla legge.

8. Due inediti strumenti preventivi
La nuova fattispecie incriminatrice di atti persecutori non esaurisce la disciplina “anti-stalking”: con il decreto n. 11 del 2009, il legislatore ha incrementato la gamma delle misure cautelari, prevedendo quella del divieto di avvicinamento dei luoghi frequentati dalla persona offesa e ha migliorato la tutela preventiva della vittima di atti persecutori introducendo l’istituto dell’ammonimento del questore (art. 8 decreto).

8.1 Il divieto di avvicinamento ai luoghi frequentati dalla persona offesa
Con tale strumento cautelare, disciplinato dall’art. 282 ter cpp, si fa divieto al destinatario di avvicinarsi a luoghi determinati, che siano frequentati abitualmente dalla persona offesa, oppure gli si impone di mantenere una determinata distanza da tali luoghi o dalla vittima. In presenza di particolari esigenze di tutela, tale prescrizione è riferibile anche ai prossimi congiunti della persona offesa, nonché a persone con la stessa conviventi o comunque legate da relazione affettiva. In merito alla motivazione del provvedimento cautelare, si registra un significativo contrasto circa la legittimità dell’ordinanza che dispone il divieto di avvicinamento, senza indicare specificamente i luoghi oggetto di divieto. 

Un primo orientamento ritiene legittima l’individuazione “per relationem”, con riferimento ai luoghi in cui, di volta in volta, si trovi la persona offesa, per cui, ove tali luoghi, anche solo casualmente, siano frequentati anche dall’indagato, quest’ultimo deve immediatamente allontanarsi. Diversamente opinando si consentirebbe all’agente di avvicinarsi a quei luoghi non rientranti nell’elenco tassativo dell’ordinanza, ma frequentati occasionalmente dalla vittima, così frustrando la ratio della misura. 

Altro orientamento più restrittivo sostiene, invece, l’illegittimità dell’ordinanza che disponga il divieto di avvicinamento senza determinare specificamente quelli oggetto di divieto, in quanto non consente all’indagato di conoscere preventivamente i luoghi cui gli è inibito l’accesso, con conseguente eccessiva limitazione della sua libertà di circolazione.

8.2 La procedura di ammonimento
La procedura di ammonimento assume grande rilievo nell’ambito della lotta allo stalking, in quanto costituisce una misura preventiva volta a evitare alla vittima quell’escalation criminale che caratterizza gli atti persecutori e che comporta la realizzazione degli eventi tipizzati dall’art. 612 bis cp e, dunque, le ricadute negative sulla persona offesa dal punto di vista psichico.

Ai sensi dell’art. 8 del dl 23 febbraio 2009, n. 11, convertito con modificazioni in legge 23 aprile 2009, n. 38, fino a quando non sia stata proposta la querela, la vittima può rivolgersi all’autorità di pubblica sicurezza al fine di richiedere l’adozione da parte del questore di un provvedimento formale di ammonimento nei confronti dello stalker. Il questore, inaudita altera parte, se ritiene fondata l’istanza – anche attraverso l’esercizio dei poteri istruttori che la norma gli conferisce, tra i quali la possibilità di assumere sommarie informazioni dalle persone informate sui fatti – ammonisce oralmente il soggetto, invitandolo a tenere una condotta “conforme alla legge”. Scopo della procedura è sicuramente quello di prevenire la consumazione degli atti persecutori, di assicurare alla vittima una forma di tutela “anticipata”, operante anche ove le condotte non abbiano ancora raggiunto quel livello di reiterazione necessario per la sussistenza del delitto. Il contenuto dell’ammonimento consiste, non tanto in un generico invito al rispetto della legge, “quanto in uno specifico invito ad interrompere qualsiasi interferenza nella vita del richiedente”, con l’avvertimento che ove le condotte oggetto di istanza da parte della persona offesa vengano reiterate, esse oltrepasseranno la soglia della rilevanza penale. Da ultimo è bene specificare che, stante la genericità del dettato normativo, deve ritenersi che, ai fini dell’operare delle due conseguenze che la legge riconnette al mancato rispetto del provvedimento – procedibilità d’ufficio e applicazione della circostanza aggravante – è necessaria un’identità dei fatti per cui è intervenuta l’istanza di ammonimento e quelli oggetto di contestazione penale, nonché l’identità tra la vittima che ha proposto istanza di ammonimento e la persona offesa dalle condotte che abbiano assunto rilevanza penale.

*consigliere della Suprema Corte di Cassazione,  **tirocinante presso la Suprema Corte di Cassazione

08/01/2019