Cristina Di Lucente
#Palermochiamaitalia
La Polizia di Stato per la prima volta sulla Nave della legalità con i ragazzi per commemorare i suoi caduti nel 26° anniversario delle stragi del ’92
Il 23 maggio è la ricorrenza che fa risuonare nella memoria la tragedia di Capaci, il giorno in cui la Mafia sembrava aver raggiunto il suo obiettivo 26 anni fa, strappando via la vita a Giovanni Falcone, uno dei fautori della primavera giudiziaria per il nostro Paese, a sua moglie, il magistrato Francesca Morvillo, e a tre dei poliziotti che li accompagnavano, aprendo una ferita destinata ad allargarsi ulteriormente con un’altra strage che sarebbe avvenuta di lì a poco, quella di via d’Amelio. Altre vite spezzate, il magistrato Paolo Borsellino e insieme a lui 5 poliziotti, 1 donna e quattro uomini, altro dolore. Questo 23 maggio ha avuto un valore speciale per la Polizia di Stato, perché nel celebrare il magistrato scomparso sono stati ricordati con una determinazione senza precedenti quelli che spesso venivano assorbiti nell’anonima definizione di “uomini della scorta”. Nomi e volti delle vittime delle due tragedie hanno preso la forma di ritratti che campeggiavano su una gigantografia, quella dispiegata sulla poppa del traghetto che ha accolto mille studenti di ogni età provenienti da tutta Italia, la nave della legalità, partita da Civitavecchia in direzione Palermo lo scorso 22 maggio per intraprendere un viaggio che raccontasse quella ferita che negli anni si è trasformata in memoria attiva e che ha avuto come protagonisti e principali destinatari i ragazzi. Quando si parla di commemorazioni il rischio del racconto rituale e retorico è dietro l’angolo, un modo per scongiurarlo è ricorrere a testimonianze dirette, come lo sono state quelle dei familiari delle vittime – sulla nave c’erano Claudia, sorella di Emanuela Loi, e Tina, moglie di Antonio Montinaro – o dei colleghi che hanno lavorato a stretto contatto con i magistrati dello storico pool antimafia – Pietro Grasso e Leonardo Guarnotta, anch’essi presenti a bordo – che hanno contribuito a rispondere autenticamente alla domanda di chi fossero le persone che venivano ricordate e che implicitamente si sono posti tanti ragazzi che in quel maledetto 23 maggio del 1992 non erano ancora nati, o forse erano troppo piccoli per poter sapere.
Viaggio nella memoria
Erano i colori a prevalere al porto di Civitavecchia poco prima che la nave salpasse, quelli vivaci degli striscioni realizzati dai ragazzi delle scuole, circa 1.000 giovani che hanno partecipato al concorso indetto dal Miur e dalla Fondazione Falcone dal titolo “Angeli custodi: l’esempio del coraggio, il valore della memoria”, e quelli più impalpabili del loro entusiasmo. Prima dell’imbarco i rappresentanti delle istituzioni hanno salutato la partenza del traghetto: il capo dello Stato Sergio Mattarella, accolto calorosamente dagli studenti, ha incoraggiato i ragazzi, ricordando loro l’importanza della reazione civile nella lotta alla Mafia che è scaturita da quella stagione tragica per il Paese e che richiede un impegno continuo, come quello della testimonianza che hanno dato decidendo di intraprendere il viaggio. «Falcone e Borsellino erano legati dall’impegno nella giustizia, dalla modernità dei metodi di lavoro e da vincoli di amicizia personale – ha ricordato il capo dello Stato – e insieme a loro anche i poliziotti che li accompagnavano tutelavano i valori della legalità e assicuravano il senso della vita dello Stato». Anche il capo della Polizia, Franco Gabrielli, ha sottolineato come «quei ragazzi – Vito Schifani, Antonio Montinaro, Rocco Dicillo, Agostino Catalano, Vincenzo Li Muli, Eddie Walter Cosina, Claudio Traina, Emanuela Loi – avevano accettato non di scortare il potente di turno, ma persone che rischiavano la vita ogni giorno in maniera concreta, avevano ben presente che quell’incarico non era come tutti gli incarichi». Erano ragazzi pieni di vita, affetti, gioie e speranze, e hanno comunque deciso di rimanere al fianco delle persone che proteggevano. Anche il ministro uscente dell’Istruzione Valeria Fedeli, promotrice dell’iniziativa assieme alla fondazione Giovani Falcone, prima di salire a bordo ha sottolineato la dedica speciale di questa edizione del progetto a quegli “eroi consapevoli”, facendo notare con evidente commozione come «dietro quei nomi ci sono otto persone, otto professionisti che hanno creduto talmente tanto nella democrazia da mettere a repentaglio la propria vita per delle persone che stavano cercando di cambiare il mondo, persone che equivalgono ad altrettante storie familiari».
Storie in navigazione
Attenzione viva e curiosità negli occhi dei 1.000 ragazzi durante l’incontro moderato da Nando Dalla Chiesa, docente di sociologia della criminalità organizzata, che li ha visti tutti riuniti nella sala convegni alle 21, mentre la nave procedeva verso la destinazione che sarebbe stata raggiunta solo all’indomani. Il silenzio era totale per ascoltare le testimonianze dei cosiddetti “libri viventi”, come Leonardo Guarnotta, che lavorò in un’esperienza unica, gomito a gomito con i magistrati del pool antimafia, chiamato da Caponnetto in una telefonata che gli ha cambiato la vita. «Eravamo una squadra, giocavamo insieme. E avevamo un sogno – così l’ex magistrato – quello di liberare una terra offesa e violentata dalla Mafia per dare ai giovani una società migliore». Anche la testimonianza di Pietro Grasso, giudice a latere che scrisse la sentenza definitiva del maxi-processo è stata all’insegna del ricordo umano, quello di Giovanni Falcone, descritto nel suo modo ironico di trattare la realtà, «amante del nonsense e dei cocktail fatti di coca-cola e whiskey», e di Paolo Borsellino che «era solito fare scherzi goliardici ai colleghi e girava spesso senza scorta perché avvertiva il pericolo e voleva che i “suoi” ragazzi si salvassero». La testimonianza di Claudia Loi è stata particolarmente toccante nel descrivere il dolore che le aveva impedito fino ad allora di tornare a Palermo, e che ha deciso ora di affrontare. Il ricordo della sorella Emanuela è quello di «una ragazza gioiosa, gentile, che emanava positività e alla quale chiedevo sempre consiglio, nonostante fosse più piccola di me, eravamo inseparabili». Poi il destino volle che Emanuela, che in realtà desiderava fare la maestra e aveva fatto il concorso solo per accompagnarla, lo superasse a pieni voti e diventasse poliziotta, unica donna della scorta di Paolo Borsellino. «In questa edizione della nave della legalità, dedicata agli angeli custodi, non ho potuto dire di no a Emanuela e ai suoi colleghi, per questo ho deciso di partecipare alla traversata» ha concluso Claudia. Un’altra testimonianza emozionante è stato quello di Tina Montinaro, moglie di Antonio, caposcorta del giudice Falcone, anche lei per la prima volta sulla nave della legalità, che ha parlato del suo impegno e della volontà di continuare a vivere a Palermo, anche se originaria di Napoli, e dopo la morte del marito di crescere lì i suoi figli, per onorarne la memoria: «Ho deciso di rimanere perché c’è anche tanta gente per bene, la mia presenza ha rappresentato la volontà di dire ai mafiosi, quelli rimasti, che io sono più forte di loro». I ragazzi sono rimasti profondamente colpiti dalla forza persuasiva delle parole ascoltate, come spiega Marta, di una scuola di Lagonegro (Pz), «la testimonianza di Tina Montinaro è stata la cosa che mi rimarrà di più nella memoria, ho apprezzato quello che ha detto, la sua scelta e il suo sottolineare come avrebbe compiuto oggi 25 anni di matrimonio, come se suo marito fosse sempre stato con lei». Giusy, dello stesso Istituto, ha sottolineato invece la testimonianza di Claudia Loi, il destino incrociato nella vita delle due sorelle, ha inoltre evidenziato come «parlare in classe di queste cose è diverso, in questo modo invece il coinvolgimento è di gran lunga maggiore, perché ciò che ascolti ti rimane dentro».
Una giornata per non dimenticare
Lo sbarco a Palermo, alle 8 del mattino, è stato accolto da un folto gruppo di giovani che attendevano l’arrivo della nave, in un clima di festa animato da canzoni e cori inneggianti ai magistrati e ai poliziotti caduti nella strage, e da un palco dal quale è giunto il saluto del sindaco Orlando e della presidente della fondazione Falcone, Maria, sorella del magistrato. Sono poi partiti i cortei che hanno diviso in gruppi i ragazzi, che si sono diretti nei luoghi simbolo che hanno costituito i nuclei pulsanti della manifestazione.
Tra tutti, l’aula bunker del carcere dell’Ucciardone, storico luogo dove si svolse il primo maxi-processo. Ragazzi, insegnanti, numerosi ospiti del mondo della magistratura e delle forze dell’ordine, oltre ai familiari delle vittime, hanno riempito ogni posto disponibile, cambiando “i connotati” a quell’aula che riporta alla memoria di chiunque sia stato adulto negli Anni ’90 momenti drammatici in cui la lotta alla mafia si svolgeva proprio dentro quell’aula d’assise. È li che in successione hanno parlato di legalità lo scorso 23 maggio tutti i rappresentanti delle istituzioni, magistrati ed ex appartenenti a quel mondo come Federico Cafiero De Raho, Giuseppe Ayala, Piero Grasso, ministri – Marco Minniti, Valeria Fedeli, Andrea Orlando – massimi rappresentanti delle forze dell’ordine – il capo della Polizia, il comandante dell’Arma e della Guardia di Finanza. E su quello stesso palco, dal quale era possibile osservare le sbarre delle “gabbie” tappezzate dalle foto che componevano una mostra fotografica curata dall’Ansa che ripercorreva le tappe della vita di Giovanni Falcone e Paolo Borsellino, sono state premiate le scolaresche che con i loro lavori si sono guadagnate un viaggio di conoscenza presso la sede di Quantico dell’Fbi.
Anche altri luoghi simbolo di Palermo hanno richiamato la presenza di migliaia di ragazzi, e non solo, per onorarne la memoria: piazza Magione, nel cuore del quartiere Kalsa, dove sono cresciuti i due magistrati: da lì è stata accesa una fiaccola che ha dato l’avvio ai campionati nazionali di atletica leggera, con un tedoforo speciale, il tenente della Guardia di Finanza Emanuele Schifani, figlio di Vito. Nel punto in cui 26 anni fa esplodeva un carico di tritolo che faceva saltare un tratto di autostrada in direzione Capaci sorge oggi il “giardino della memoria”, nel quale sono stati piantati alberi di ulivo, sotto ognuno dei quali vi è una targhetta con il nome della vittima a cui l’arbusto è dedicato, e lo scorso 23 maggio vi era anche la teca sotto la quale è conservata la Quarto Savona 15. Giovanni Montinaro, che con orgoglio porta il nome traccia dell’amore per il magistrato da parte di suo padre Antonio ha accompagnato i ragazzi delle scolaresche siciliane all’interno di quello che era stato un luogo di morte e che oggi rappresenta un segnale che va nella direzione opposta, grazie all’eredità che hanno lasciato uomini e donne che hanno dato la vita per il cambiamento.
Le celebrazioni si sono spostate nel pomeriggio in un altro luogo simbolico, l’albero Falcone, un ficus che si innalza per cinque piani davanti al portone del palazzo dove la famiglia Falcone viveva. Un luogo magnetico arricchito di messaggi, fotografie e piccoli oggetti depositati da chi quotidianamente giunge per rendere omaggio, e dalle migliaia di persone presenti per l’occasione, non solo studenti ma molti siciliani, scesi in piazza per ricordare.
È lì che alle 17.58, puntuale, è sceso il silenzio, segnato dalla tromba della Polizia di Stato. Qualche istante prima Pietro Grasso ha pronunciato, uno dopo l’altro, i nomi di quegli eroi “consapevoli”. Un silenzio assordante ha seguito l’esecuzione, silenzio che siamo certi tutti quei ragazzi porteranno dentro per molto tempo.
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Ferite aperte
Quel 23 maggio tra i poliziotti che scortavano Giovanni Falcone c’è stato anche chi riuscì, per una pura casualità, a salvarsi: Angelo Corbo, Paolo Capuzza, Gaspare Cervello si trovavano nella terza auto blindata, quella che seguiva il giudice. La loro testimonianza, quella di una ferita lacerante che si portano dentro e che la memoria non è riuscita ad archiviare come chiusa se non con un enorme percorso di ricostruzione, equivale ad ascoltare una parte della storia che ha segnato la nostra Repubblica. Scortare il magistrato per Angelo e Gaspare, parte della scorta fissa, era un onore, «era una di quelle persone che avevano cercato di ridare dignità alla nostra città, sapevamo che soprattutto dopo il maxi-processo era una persona pericolosa da scortare, sapevamo che prima o poi qualcosa sarebbe successo. Falcone diceva spesso di essere “un morto che cammina”, come tali anche noi lo eravamo». Paolo Capuzza il giorno della strage di Capaci sostituiva un collega, la personalità che scortava solitamente era Alfonso Giordano, che aveva presieduto il maxi-processo: «Non ho la percezione di quanto tempo sia passato dopo la deflagrazione. Siamo scesi dalla macchina che era piena di detriti e il primo pensiero dopo esserci resi conto di quello che era accaduto è stato quello di scendere con le armi in pugno per continuare a proteggere i magistrati che in quel momento erano in fin di vita, ci aspettavamo il colpo di grazia». «Dopo eravamo uomini diversi da quelli che avevano iniziato il servizio, siamo cambiati» racconta Angelo. Il “dopo”, da un punto di vista umano e professionale lo descrivono come un continuare a sopravvivere con i propri incubi e con un senso di oppressione, perché dopo una simile tragedia la domanda assillante è “perché noi oggi siamo qui e i nostri colleghi no”. Anche Antonio Vullo, unico sopravvissuto all’eccidio di via D’Amelio perché stava spostando l’auto dalla carreggiata, ha raccontato il suo dramma: «La paura in quel periodo di estremo pericolo, specie dopo Capaci, riuscivamo ad affrontarla attraverso l’atteggiamento di complicità che Paolo Borsellino aveva nei nostri confronti, ci dava quella sicurezza che cercavamo. Sperimento la solitudine ogni giorno perché sono l’unico uscito vivo da quella tragedia, i giudici per noi che li abbiamo scortati sono sempre vivi». Antonio ha anche sottolineato l’importanza dei luoghi, più che delle parole, come testimonianza per i giovani: «È importante farli uscire dalle aule, portarli nei luoghi dove tutto è accaduto. È il modo per trasmettere loro verità».