Cristiano Morabito

La polizia che non ti aspetti

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Il sorprendente incontro di etnie diverse tra personale operativo e atleti costituisce un bell’esempio di integrazione

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La giuria del 5° concorso letterario di Poliziamoderna “Pagine migranti”, ha emesso i suoi verdetti e selezionato la rosa dei cinque finalisti, al cui interno verrano proclamati i vincitori. La grande partecipazione di poliziotti e ragazzi ha rappresentato un sicuro successo per questa edizione, anche se ci ha costretto a prolungare i termini di partecipazione e a prenderci più tempo per esaminarli e valutarli tutti con la dovuta attenzione. 

Tutto questo ci ha portati a fare alcune riflessioni proprio sul tema immigrazione/integrazione, soprattutto nel mondo del lavoro e a guardare in particolare modo  all’interno del “nostro mondo”, quello della Polizia di Stato. 

Non vi nascondiamo che ci siamo tutti meravigliati quando abbiamo scoperto quanta polizia “multicolore” esista e, allora, siamo andati a cercare e a “indagare” su quanti colleghi con gli occhi a mandorla, piuttosto che con la pelle più scura o di origini dell’Est Europa ci siano all’interno della nostra Amministrazione e, soprattutto, quali mansioni gli siano state affidate. 

In questo servizio potrete leggere sette storie, da chi svolge vero e proprio lavoro operativo sul campo, a chi invece gareggia su un altro “campo”, quello di gara. Ed ecco arrivare le prime soprese, che vengono soprattutto dal mondo dello sport delle Fiamme oro dove, oltre ad atleti di origine straniera, sono tantissimi anche i bambini e i ragazzi “non italiani” che praticano una disciplina all’interno delle nostre palestre.

Benvenuti, dunque, nel nostro “nuovo mondo”, fatto di tanti colori, lingue e usanze diverse che non fanno altro che arricchire la Polizia di Stato. Un bel passo in avanti da quando, decine di anni fa, si parlava solo di terroni e polentoni; ma la polizia già era “avanti”, perché nelle questure e negli uffici, nonché sulle volanti, già si parlavano tanti dialetti, da Belluno a Siracusa, passando per Trieste e Bologna, facendo un salto fino a Cosenza, così come si racconta nell’ultima delle storie che troverete all’interno di questo servizio.

Silvia: la divisa con gli occhi di ghiaccio
Sua mamma era una sportiva italiana e studiava lingue straniere all’università di Varsavia. Il padre un campione polacco di pallanuoto. Si sono conosciuti nell’estate dell’82 in piscina. Una storia vissuta all’epoca del blocco sovietico: appuntamenti telefonici e corrispondenza epistolare spesso minuziosamente controllati. Dalla storia d’amore tra i due atleti della pallanuoto, è nata, a Bari, Silvia Zywicki, 32 anni, commissario capo in servizio alla questura di Milano. «Nell’84 il mio papà era arrivato in Italia con un visto per turismo – racconta Silvia – e si è iscritto all’università di Bari dove ha potuto raggiungere mia madre. I miei primi anni, sono stati caratterizzati da un rapporto costante con l’Ufficio immigrazione: eravamo sempre lì». Quasi un segno premonitore, visto il lavoro che svolge attualmente. «Poi mi sono laureata in giurisprudenza e sono entrata in polizia – spiega Silvia orgogliosa –. La mia prima destinazione è stata Milano, una città multietnica che amo e da subito ho desiderato fortemente lavorare all’ufficio immigrazione, una realtà ormai “familiare”». Nessuno ha mai sospettato che fosse di origine straniera, nonostante i lineamenti caucasici, occhi e capelli chiari. Con i colleghi ha un ottimo rapporto e l’ambiente di lavoro è molto sereno: «Una condizione indispensabile considerando la mole di lavoro e i ritmi elevatissimi che dobbiamo affrontare. Cerco di trattare ogni pratica il più scrupolosamente possibile. Dietro ogni fascicolo  che arriva sulla mia scrivania c’è tutta la storia di una persona e devo decidere della sua vita. Rigettare un permesso di soggiorno a un padre vuol dire creare enormi disagi a un’intera famiglia». Silvia ci saluta, si rituffa tra le montagne di carte del suo ufficio e ci rivela che, nonostante le sue origini polacche, le mancano il clima e la cucina della Puglia, la sua culla mediterranea.
Valentina Pistillo

Dino: dalla guerra civile alla Volante
Parla un po’ di tigrino, la lingua semitica del Corno d’Africa e con la moglie cucina per i suoi tre figli lo zighinì, una carne molto piccante. Si chiama Dino Vianelli, ha 54 anni ed è un sovrintendente capo delle Volanti di Prato. In realtà ha un nome e un cognome italiani, ma è di origine etiope da parte di madre la quale ha sposato un italiano che lavorava in Africa. In lui convive il metissàge, l’incontro di più culture. Ci viene incontro, altissimo, imponente, occhi e pelle scura, dall’aspetto rassicurante: «In Etiopia ero considerato straniero poiché avevo la cittadinanza italiana», ironizza il poliziotto. Un’infanzia e un’adolescenza trascorse durante la guerra civile per l’indipendenza dell’Eritrea: «Mogadiscio è stata assediata quasi un anno e noi eravamo senza cibo e acqua. Non è stato facile da ragazzino vivere in quei luoghi». Arrivato con la sorella in Italia a 21 anni, dopo le superiori frequentate ad Addis Abeba, Dino si è iscritto all’università, alla facoltà di Ingegneria. Alla domanda di come sia nata l’idea di arruolarsi in polizia, ci racconta la sua passione per l’Istituzione e il servizio militare svolto a Bracciano, vicino Roma. «Tutti gli amici e i conoscenti mi hanno sempre detto che sono un tipo preciso, molto inquadrato e che la divisa era fatta su misura per me». Il corso nel 1992, alla Scuola allievi agenti di Roma, poi la prima destinazione a Siena, in seguito il trasferimento a Prato, dove attualmente lavora con la moglie, anche lei poliziotta. Non ci nasconde che i colleghi lo hanno accolto sempre bene e gli hanno permesso di integrarsi anche sul posto di lavoro ma: «Tra la gente, purtroppo, c’è ancora  molto pregiudizio – confessa con un po’ di amarezza – anche se sono 23 anni che lavoro in Volante e in città mi conoscono tutti».
Valentina Pistillo

Samir: un egiziano in laguna
Laureato in lingue e letterature orientali, specializzazione cultura giapponese, Samir Sayed Abdellattef ha 41 anni ed è un assistente che lavora al centralino della questura di Venezia. Suo padre, egiziano, lo ha lasciato quando aveva 6 anni e lui è cresciuto con la mamma italiana, i nonni e la zia a Dragona (Roma). Non parla arabo, ma ha un inconfondibile accento romano. Carnagione olivastra, barba e occhi scuri dal taglio tipicamente mediorientale, è un perfetto esempio d’integrazione: «Sul lavoro non ho mai avuto colleghi che mi facessero sentire estraneo». Ricorda il giorno in cui ha deciso di entrare in polizia: «Mi sono avvicinato all’Amministrazione per fare il militare: essere poliziotto mi piaceva e mi dava soddisfazione e quindi mi sono raffermato.  All’arruolamento – continua sorridendo Samir – erano sorpresi di vedermi poiché pensavano che non fossi italiano».  Quando è in borghese e sta fuori Venezia, non sapendo che è uno “sbirro”, ogni tanto lo fermano per chiedergli i documenti e lui, tutto fiero, tira fuori il tesserino e strizza l’occhio ai colleghi increduli.
Prima destinazione (2002) Massa Carrara, poi Varese, Roma e finalmente Venezia, città che Samir adora: vive in laguna e tra un turno e l’altro raggiunge a Dorsoduro l’Accademia delle belle arti, dove frequenta i corsi per specializzarsi in nuove tecnologie grafiche, in particolare quelle multimediali di cui è appassionato. Uno dei sui sogni nel cassetto: collaborare col team di grafici che impagina Poliziamoderna, di cui è affezionato lettore da più di 15 anni.
Valentina Pistillo

Sergiu: una vita per lo sport
«Sono nato in Moldavia nel 1984, la passione per la canoa è nata all’età di 14 anni, prima ho praticato judo e taekwondo, ma l’unica cosa da subito certa è che volevo fare strada nello sport». Così a 16 anni si è trasferito a ChiÈ™inău per frequentare il liceo dello sport. «A scuola si poteva praticare a livello agonistico la canoa, la mattina studiavi e il pomeriggio ti allenavi – spiega Sergiu Craciun, canoista delle Fiamme oro vincitore della medaglia di bronzo nel C2 1.000 metri, in coppia col fratello Nicolae, agli ultimi Europei – In poco tempo ho raggiunto quelli che si allenavano già da un paio di anni. Quando sono entrato nella categoria under 23 ero tra i primi 5/6 al mondo. Nel 2002 mi sono diplomato e l’anno dopo mi sono iscritto all’Università, alla facoltà di Diritto doganale». Dopo la laurea, nel 2009, è arrivato in Italia su suggerimento del tecnico nazionale Antonio Cannone: «Sapevo che qui la mia passione sarebbe potuta diventare un lavoro e così ho accettato – racconta l’atleta – Mia madre, già in Italia dal ’99 per lavoro e mio papà, tenente colonnello della polizia moldava, mi hanno sostenuto anche in questo». Sergiu, nonostante sia arrivato in Italia da adulto non ha avuto problemi ad ambientarsi: «Forse perché lo sport ha fatto un po’ da cuscinetto – spiega – molti ragazzi mi cercavano per migliorarsi nella canoa, mi chiedevano consigli. Quando sei un esempio positivo hai posto ovunque nella società. Sabaudia poi ha fatto la sua parte, è stupenda, e il lago e il clima per allenarsi sono perfetti. Appena mia moglie si è laureata ho fatto venire qui anche lei». Nel 2010 Sergiu ha avviato le pratiche per ottenere la cittadinanza, ma già dal 2011 gareggiava per l’Italia. Nel 2015, diventato cittadino italiano, ha partecipato al concorso per entrare nelle Fiamme oro: «Quando sono arrivato in Italia, nonostante facessi parte di una società di Bari, ho cominciato ad allenarmi con i ragazzi della squadra della polizia che da subito mi hanno accolto come fossi uno di loro. Ma le mie prestazioni davano fastidio alle Fiamme oro che nella mia specialità, la canoa canadese, avevano già atleti importanti… (ride, ndr)… e quindi hanno preferito prendermi nelle loro fila. Ho colto l’occasione al volo, avevo 30 anni e stavo passando un periodo duro perché avevo delle difficoltà economiche e una famiglia da mantenere e poi era come se facessi già parte del gruppo». Una scelta presa quasi in automatico si è trasformata, dopo aver indossato per la prima volta la divisa, in motivo di grande orgoglio: «Ogni volta che ripenso al primo giorno di corso, a quando ho indossato la divisa per le foto del tesserino mi viene ancora la pelle d’oca. È stato davvero emozionante indossare la tuta Fiamme oro ed entrare in acqua per la polizia. Quando terminerò l’attività sportiva, voglio rimanere nell’Istituzione. Mi sono reso conto di essere parte di una grande famiglia e che, se chiedi aiuto a un collega ti dà una mano; e questa cosa è bellissima».
Chiara Distratis

Ayomide: l’uniforme contro i pregiudizi
«Gli insulti razzisti sono sempre uguali, queste persone non hanno neanche molta fantasia». Questo il pensiero di Ayomide Folorunso ostacolista e velocista delle Fiamme oro, ripensando alle offese che un automobilista aveva lanciato a sua zia: «Ci aveva anche tagliato la strada! – ricorda Ayomide – Mi è capitato di assistere a commenti razzisti rivolti ai miei cari, ma io per fortuna non ne sono mai stata vittima». Ayomide è arrivata in Italia, precisamente a Fidenza (PR), a 8 anni con i genitori e la sorellina di tre anni più piccola: «Io mi sento a tutti gli effetti “biculturale”. Ho passato l’infanzia in Nigeria e i valori mi sono rimasti, poi ho vissuto in Italia tutta la parte “interessante” dell’adolescenza… conosco meglio il Risorgimento italiano che la guerra del Biafra. Le mie origini le ho custodite nel cuore ma mi sento italiana al 100%». Ayomide racconta di un’infanzia felice, “normale”: «Gli screzi con i compagni c’erano, quelli che ci sono a quell’età. Ho ancora ottimi rapporti con molti di loro nonostante abbiamo preso strade differenti». Ha iniziato a correre alle medie ma le sua qualità si intravedevano già da piccola e le ha sfruttate per inserirsi nel gruppo: «A “palla prigioniera” ero molto veloce e non riuscivano a prendermi. Dopo le prime volte hanno capito che potevo essere un asso della squadra e facevano a gara per avermi dalla loro. Le mie qualità, di cui io ero ancora inconsapevole, mi tornavano utili nel gioco e mi hanno dato una gran mano per far amicizia. Un ulteriore asso nella manica è stato l’inglese: lo parlavo bene e aiutavo i miei compagni». Nel frattempo l’acquisizione della cittadinanza e i buoni risultati sulle piste hanno richiamato l’attenzione delle Fiamme oro: «In Italia entrare nei gruppi sportivi militari o delle forze dell’ordine è l’unico modo per fare professionismo o comunque per farlo più facilmente. L’interesse delle Fiamme oro è caduto come un fulmine a ciel sereno, non pensavo di essere così forte; mi impegnavo, correvo, mi divertivo ma non mi sarei mai aspettata di partecipare alle Olimpiadi. 
Al colloquio prima del concorso, durante il quale mi hanno presentato la possibilità di questa scelta e le implicazioni che ne derivavano, ho realizzato che sarei diventata proprio una poliziotta… non c’è miglior messaggio per chi pensa che le persone di colore arrivate in Italia siano tutte criminali… beh per farli ricredere cosa c’è di meglio di una poliziotta di colore! È un bel segnale di integrazione passare da straniera di turno a far parte di una Istituzione come la Polizia di Stato. Ne sono felice e orgogliosa».
Chiara Distratis

George: professione pilone
Un metro e ottantasette per centoventi chili, professione rugbista-poliziotto e, più precisamente, pilone delle Fiamme oro rugby. George Geovani Iacob, per tutti i suoi compagni di squadra semplicemente “Giovà”, ha iniziato a giocare da questa stagione con il XV della Polizia di Stato, ma le sue origini, che il nome tradiscono, affondano le radici ai piedi dei Carpazi, a Bacau, in Romania. Lui è uno dei due “stranieri”, ma italiani al 100%, che negli ultimi anni hanno vestito la maglia del club cremisi; infatti, Iacob ha ricalcato le orme di Laert Naka, anche lui pilone ma di origini albanesi: «Tre anni fa conobbi Laert – esordisce George Iacob – il quale mi parlò molto bene di questo ambiente che poco conoscevo e verso il quale, devo dire la verità, ero un po’ prevenuto per le voci che avevo sentito in giro. E, invece, ho scoperto davvero un ambiente sano e particolare unico nel suo genere». La storia di George inizia nel 1990, appunto a Bacau, ed è legata a doppio filo con quella del padre, impiegato per una multinazionale di costruzioni e sempre in giro per il mondo tra Russia, Libia e Israele: «Paradossalmente – continua – ho iniziato a “conoscere” mio padre da quando, nel 2001, io e mia sorella lo raggiungemmo. Fino all’età di 11 anni ho vissuto in Romania, dove studiavo e praticavo un altro sport, la pallamano, che lì da noi è considerato uno sport nazionale. Con il rugby ho iniziato relativamente tardi, a 17 anni, quando mi sono avvicinato per la prima volta a questo sport a Torino, dove vivevamo. E da allora è stato amore a prima vista!». Nell’immaginario collettivo, c’è sempre l’idea che chi arrivi nel nostro Paese da straniero possa avere grandi difficoltà a integrarsi, ma così non è stato per George Iacob che, una volta arrivato, ha iniziato da subito questo processo, anche e soprattutto grazie alla pratica sportiva: «Non avendo un carattere particolarmente emotivo – prosegue l’atleta cremisi – non ho vissuto male il distacco dal mio Paese. All’inizio mi mancavano i miei amici, ma a questa mancanza sopperiva la felicità di vedere finalmente riunita tutta la famiglia. Ho avuto la fortuna, che non capita a tutti, di essermi riuscito a integrare quasi immediatamente e non ho avuto neanche la difficoltà della lingua: italiano e romeno sono entrambe lingue di ceppo neolatino. In poco più di sei mesi già avevo imparato a esprimermi quasi correttamente e ora ho anche l’accento piemontese. Qui ho trovato la mia vera dimensione, infatti sto anche per laurearmi in Scienze forestali e ambientali». Integrazione riuscita anche grazie allo sport, ma George alza ancora di più il tiro: «Ormai posso dire tranquillamente di sentirmi italiano al 100%. In Romania ci torno poche volte e solamente per andare a trovare mia nonna che ancora si trova a Bacau. Io ormai sono un rugbista italiano, ma soprattutto un poliziotto che, una volta appesi gli scarpini al chiodo, vestirà la divisa della Polizia di Stato».
C. M.

Le sbrissià
Ero “terrone”, con l’aggravante di avere anche un padre “terrone”, di un piccolo paese, Trepuzzi, vicino Lecce. “Terrone”, con l’attenuante di una mamma di Forlimpopoli, che non sta vicino a Paperopoli, ma è un gruppetto di case, tra Forlì e Cesena; altra attenuante un fratello nato a Venezia: tutte le attenuanti erano annullate, perché non ero solo un “terrone”, ma venivo da Roma “ladrona”. Per non farmi mancare nulla e passare inosservato, con una splendida Alfa Romeo 33 rossa targata “Roma” con dentro biscotti “Gentilini”, casse di “Acqua di Nepi” e bottiglie di sogni arrivai a Verona, mia prima sede di servizio, il 9 novembre del 1993.
Tutti mi dissero che ero stato fortunato, visto che ero in una città bellissima e avrei voluto tanto accorgermene, se in mezzo alla nebbia mi pareva soltanto di essere arrivato in mezzo alle nuvole. I primi tempi non furono facili, capivo poco e niente. Parole, verbi e frasi intere erano difficili e quando i veronesi parlavano avevano due prugne in bocca: una per guancia. Guidavo in maniera diversa ma, piano piano, iniziai a scoprire l’esatto utilizzo di “stop” e strisce pedonali; davo pacche sulle spalle a tutti, abbracciavo e baciavo, alcuni scappavano e altri tolleravano. Mangiavo bucatini alla amatriciana a mezzanotte, scappato dal “pearà” (la salsa pepata, ndr) e bolliti. In questura mi sentivo di nuovo a casa e attraversavo i corridoi, passando per Sicilia, Calabria e Puglia; in mensa, pareva di entrare nei vicoli dei quartieri spagnoli di Napoli e tra “zeppole” e “babà”, vedevo il sole anche quando c’era la nebbia.
Nei nostri uffici mi sentivo a casa e se non capivo i colleghi veronesi, per noi parlavano le nostre divise, che traducono sempre tutto; fuori, però, era diverso e, soprattutto quando prendevo a calci un pallone, nei campi della provincia veronese, capitava che alcuni mi sputassero addosso dicendomi: «Terrone, tornatene a casa tua!». Passarono tre anni, arrivò la prima sanatoria del 1996 e aumentarono gli stranieri provenienti da tutto il mondo e anche quei “lama”, così poco intelligenti, si accorsero di qualcuno più terrone dei terroni. A questo punto noi, “terroni” d’Italia, non eravamo più un problema e allora, con un bel sorriso romano sulle labbra provai ad andare in giro, a spiegare che o si vive al Polo Nord, o si rischia di essere sempre un po’ terroni rispetto a qualcun altro.
Un giorno, poi, quando ero dirigente dell’Ufficio immigrazione, successe un miracolo. Nel mio ufficio aprendo la porta per ricevere le persone, sentivo sempre critiche, lamentele e imprecazioni in tutte le lingue del mondo. C’erano avvocati, sindacati, volontari della Caritas, preti e stranieri; molti urlavano, qualcuno strillava. Poi non si sentì nulla, ma solo il pianto disperato di un bimbo; con Monica, addetta alla segreteria, ci precipitammo e vedemmo un bambino di colore, disperato per aver appena sbattuto la testa ad uno spigolo. La mamma, nera come la notte, con perle di luna al posto dei denti, abbracciando il figlio mi disse: “le sbrissià!”.  Controllai i capelli, che avevo ancora, la giacca e le mani, pensando di avere qualcosa di strano addosso di cui la signora mi volesse avvisare, ma subito dopo Monica ridendo tradusse: “Le sbrissià, dottore, in veronese, vuol dire è scivolato!”. Non ho più dimenticato quella frase che uso sempre, anche quando non scivola nessuno, giusto per ringraziare quella giovane donna africana che, avendo imparato il veronese ancora prima dell’italiano, me l’aveva insegnata, cercando di consolare il suo bambino.
Da quel giorno, ancora più di quanto non avessi fatto prima, ringraziai tutti gli stranieri incontrati sulla mia strada perché, senza volerlo, mi rendevano meno “terrone” e perché, volendolo, mi insegnavano le prime parole in dialetto. A Verona mi sono integrato così, perso nei corridoi di una questura figlia dell’Italia intera imparando il veronese da persone più terrone di me. Spero che i miei figli, però, nati da due romani trapiantati in Padania e già pronti a parlare il “veromano”, possano diventare grandi, ma grandi davvero, non sentendo mai più la parola “tolleranza”, che in fondo significa sopportare qualcuno che crediamo inferiore, respirando l’integrazione così come si respira l’aria, in riva al mare.
Gianpaolo Trevisi

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Azzerare le differenze con lo sport
Lo sport è un mezzo potentissimo per l’integrazione, soprattutto per quanto riguarda le nuove generazioni. Per questo motivo, da qualche anno, le sezioni giovanili del Gruppo sportivo Fiamme oro hanno aperto le porte anche a bambini e ragazzi provenienti da altri Paesi, con cittadinanza italiana e non, che vogliono praticare una disciplina sportiva.
Un binomio, quello di “sport&legalità”, che si sta rivelando una scelta vincente, a giudicare dalle continue richieste di iscrizione. «Abbiamo tre ragazzi, tra i 9 e i 14 anni, di nazionalità marocchina ma che stanno per ottenere la cittadinanza italiana, nella sezione pugilato di Marcianise – esordisce Roberto Cammarelle, ex olimpionico di boxe e attualmente direttore tecnico del pugilato Fiamme oro – Abbiamo pensato di poter far praticare sport anche a ragazzi che non possono permetterselo, perché in condizioni socio-economiche più “difficili” rispetto agli altri». Dunque, verrebbe da dire quasi, realtà “particolari” inserite a loro volta in un’altra realtà ancora più “particolare”; infatti, i tre ragazzi, praticano la “noble art” nella palestra aperta pochi anni fa a Marcianise, in provincia di Caserta e zona notoriamente “difficile”, e che potrebbe far pensare a problemi di integrazione, ma, come ci conferma Cammarelle: «La cosa è avvenuta molto spontaneamente. Ci si chiederà il perché di uno sport come questo in una zona così particolare, perché spesso si associa il combattimento alla violenza e all’aggressività e, invece, il concetto è diametralmente opposto – spiega l’atleta – il vero pugile è quello che non alza mai le mani, anzi è capace di difendersi e, appunto perché sa difendersi bene con le mani, sa usare di più la testa. Stiamo cercando di creare buoni atleti, ma soprattutto brave persone insegnando il rispetto delle regole, importante nello sport e nella vita di tutti i giorni». Stesso discorso anche per un altro sport di combattimento: la lotta. «Sono sette ragazzi, di origini straniere che frequentano le nostre palestre – conferma il direttore tecnico Marco Arfè – cinque a Roma e due a Caserta. Questi ultimi due, entrambi quindicenni, sono nati in Brasile e poi adottati da genitori italiani. La loro è una storia particolare, perché hanno letteralmente attraversato il mondo per venire in Italia e ora frequentano la nostra palestra che si trova all’interno della Scuola allievi agenti di Caserta e quindi vivono quotidianamente l’ambiente della polizia: un contesto in cui il binomio sport/legalità funziona alla grande. La stessa cosa avviene a Roma, presso la caserma Stefano Gelsomini, sede del 1° Reparto mobile”, dove si allenano tre fratelli di origini iraniane (in Iran la lotta è quasi sport nazionale, ndr). E sempre iraniano è un altro ragazzo di 23 anni – continua Arfè – che si è avvicinato a noi da giovanissimo e ha lasciato il suo Paese perché perseguitato per motivi politici e religiosi; sul corpo porta le cicatrici di quel che ha subìto. La sua famiglia è ancora in Iran e lui ha lo status di rifugiato politico, ma non racconta la sua storia e, a chi gli chieda dei segni che ha addosso, parla dell’incidente con la moto. Infine – conclude il direttore tecnico del settore lotta – da qualche anno si allena con noi anche un 19enne di origini bielorusse. Anche la sua è una storia particolare, perché inizia con un’adozione a distanza da parte di genitori italiani, presso i quali passava l’estate, e frequentava la nostra palestra per mantenersi in allenamento: all’inizio non parlava una parola di italiano, ora, che vive stabilmente nel nostro Paese, ha anche un accento romano particolarmente spiccato». E cambiando disciplina sportiva, proprio in questi giorni, a Ponte Galeria, presso la struttura delle Fiamme oro rugby, sono arrivati Nader, Waled, Mohamed, Mahmoud e Abdalla, cinque ragazzi egiziani che, grazie a un progetto avviato in collaborazione con il Dipartimento politiche sociali - Sezione tutela minorile Lazio e in accordo con Federazione italiana rugby, Comitato regionale Lazio e la Santa famiglia di Roma, vestiranno la maglia della Roma Legio Invicta, la franchigia U18 cui prendono parte le Fiamme.
C. M. 

05/12/2017