Luigi Lucchetti*

La sindrome rancorosa

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A volte inaspettatamente gesti di generosità possono ingenerare ingratitudine verso il benefattore

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È esperienza abbastanza comune – di fronte a un nostro gesto disinteressato rivolto a qualcuno che stava vivendo un momento di bisogno o difficoltà – quella di non raccogliere alcun segno di gratitudine, o di registrare una riconoscenza finta, se non addirittura di essere oggetto di ostilità più o meno velata da parte di chi ha ricevuto da noi del bene. Al riguardo non è rilevante la natura del beneficio dispensato che può essere economico, affettivo, lavorativo, spirituale, culturale, legale, sanitario, morale. Come possiamo spiegarci in termini psicologici questa ingratitudine che in alcuni casi arriva a quella forma di aggressività nei confronti del benefattore per cui è stata coniata la definizione di “sindrome rancorosa del beneficato”? Può bastare ricorrere a costrutti generici come insensibilità, supponenza, egoismo, orgoglio, mediocrità, e chi più ne ha più ne metta, o dobbiamo cercare spiegazioni più profonde? Possiamo ritenere che in molti casi anche l’assenza di gratitudine o quella falsa siano, seppure in forma passiva, manifestazioni della stessa “pasta rancorosa”? Chi ha avuto modo di riflettere più ampiamente questa tematica, magari per le spiacevoli esperienze fatte sulla propria pelle, è assolutamente incline a rispondere positivamente a entrambi gli interrogativi. Chi riceve un beneficio, e tanto più grande è lo stesso, viene a trovarsi in una condizione che lo pone automaticamente in un evidente “debito di riconoscenza” nei confronti del benefattore. Un dono della cui provenienza si dovrebbe dare atto spontaneamente e immediatamente, ma che alcuni non riescono fino in fondo ad accettare di aver ricevuto. Fino a giungere a negarlo (era solo un suo dovere!), sminuirne la portata (che avrà fatto mai!), dimenticarlo (ma quando? ti sbagli), o addirittura viverlo come un peso dal quale affrancarsi il più rapidamente possibile trasformando il benefattore in soggetto da eludere, penalizzare o addirittura calunniare più o meno larvatamente, magari attribuendogli  – con piena coscienza di falsità - l’infamia del do ut des. Quali meccanismi entrano in gioco per spiegare questa clamorosa ingratitudine? Dobbiamo riflettere su come la condizione di beneficato comporti l’assunzione di essersi trovati, anche involontariamente, in una situazione almeno temporanea di incapacità ad affrontare difficoltà esistenziali del più vario genere, superate poi grazie al provvidenziale intervento di qualcun altro. Così il benefattore ha dimostrato, di fatto e senza volerlo rimarcare, una superiorità sul beneficato con il rischio di attivare in lui complessi di inferiorità latenti o mai veramente risolti. Se il benefattore da una parte ha liberato dalle ambasce delle sue difficoltà colui che ha generosamente beneficato, dall’altra involontariamente lo lega a sé con il dovere della gratitudine, venendosi così a configurare il classico rapporto asimmetrico di superiorità e inferiorità. E mentre per alcuni quello della gratitudine sarà semmai un dolce peso, per altri costituirà la cartina di tornasole di una perdurante ambivalenza nei confronti di questo sentimento, allo stesso tempo tanto nobile quanto esigente. Presuppone infatti il raggiungimento di una posizione adulta nel rapporto con se stessi e con gli altri all’interno di una relazione profonda come quella che si struttura nel donare e nel ricevere. Se infatti da una parte si profila l’amore per chi ci ha fatto regalo di cose buone, dall’altro si attiva il fantasma della inadeguatezza, della dipendenza, del debito oneroso della perenne riconoscenza. È il dubbio sul proprio valore, sulla autonoma capacità di affermarsi in assenza del beneficio ricevuto, e ovviamente di chi lo ha dispensato, a mettere in moto un sentimento potente almeno quanto l’amore ma, a differenza di quest’ultimo che grida al mondo la sua presenza, da tenere nascosto anche a se stessi. In questo modo l’ammirazione per la forza, la generosità, le capacità del benefattore che tanto bene hanno recato si trasforma in invidia. Questo beneficato invidioso del potere di colui che lo ha aiutato, sorretto, salvato, valorizzato arriva a stravolgere la realtà stessa del dono, o la sua qualità, o ancora i suoi effetti, fino a credere di non aver ricevuto alcun contributo esterno e di essersela cavati da soli grazie alle proprie forze. Questa operazione mentale che si traduce poi nei conseguenti comportamenti diventa pertanto funzionale a gestire il proprio complesso di inferiorità, oltre che a difendersi dalla consapevolezza stessa di invidiare l’Altro, che – come un gatto che si morde la coda – lo costringerebbe a riconoscere la personale “minorità”. Sul versante del benefattore si deve però registrare che non sempre il suo donare è animato da spirito di generosità disinteressata. Escludendo la più bruta tipologia del dare per ricevere, magari con gli interessi, si possono incontrare varie figure di benefattori “nevrotici”. Il compulsivo è quello che non può fare a meno di dare, che per sentirsi “buono”, “giusto”, “a posto” è costretto a dispensare continuamente amore e disponibilità per gli altri al fine di ricevere da loro conferma della propria adeguatezza. Alla base della sua obbligazione coatta vi sono stati genitori che lo hanno educato a essere sempre capace e bravo, per cui si confronta continuamente con la fantasia del non essere mai abbastanza perfetto. Il benefattore per espiazione è colui che dona per riparare inconsciamente colpe di vario genere, quasi sempre irrealistiche o comunque ipertrofizzate, collegate più o meno direttamente alle dinamiche relazionali primarie vissute con i genitori e i fratelli. Il narciso è colui che dona solo per veder risplendere la luce del sole che ritiene di essere, per cui alla base dei suoi gesti munifici non vi è mai un autentico interesse per il beneficato di turno che viene ridotto a mero specchio chiamato a restituire la sua “magnifica” immagine. Il benefattore di rimbalzo è la persona che inizialmente si è illusa di poter ricevere sostegno nella vita, ma è stata più volte amaramente delusa. Per curare questa ferita diventata piaga insanabile cerca di reggere da solo oltre se stesso anche il mondo a cui gridare il suo sacrificio. Pertanto è sempre pronto a soccorrere gli altri nel male e, contestualmente a invidiarli nel bene. Il sadico è colui che gode nel dimostrare al beneficato la propria potenza e, specularmente, sbattergli in faccia la sua pochezza, in modo da annullarne qualunque barlume di autostima ed esercitare su di lui un potere assoluto. Tornando al nostro benefattore autenticamente “sano” quale miglior viatico possiamo offrirgli, per fortificarlo rispetto all’ingratitudine, di questo antico proverbio? “Fai del bene e dimentica, se fai del male pensa”: in questa lapidaria perla di saggezza popolare pur senza dichiararli sono sottesi e collegati magnificamente tra loro amore, invidia, gratitudine e colpa, in una sintesi che illumina tanta parte delle vicende umane, comprese le nostre… ovviamente! 

*dirigente superiore medico della Polizia di Stato con specializzazione in psicologia

07/11/2017