Cristina Di Lucente
Sport a tutti i costi
Disturbi della nutrizione e dell’alimentazione e discipline sportive: una ricerca indaga la relazione tra questi due fattori
Quando lo sport diventa troppo competitivo non sempre è sinonimo di salute. In alcuni casi i cambiamenti fisiologici e gli stress nutrizionali generati da un esercizio fisico strenuo possono portare gli atleti al limite tra il benessere e il danno fisico. Questo tema è stato trattato presso il ministero della Salute durante il Workshop nazionale sulla presentazione delle prime “Linee di indirizzo nazionali per la riabilitazione nutrizionale nell’ambito dei disturbi dell’alimentazione”, alla presenza di Giuseppe Ruocco, direttore generale per l’igiene e la sicurezza degli alimenti e la nutrizione. Al convegno ha preso parte, in qualità di relatore, Angela Emanuele, primo dirigente medico della Polizia di Stato, specialista in medicina dello sport, che ha curato la sezione relativa al tema ”Attività fisico-sportiva e disturbi della nutrizione e dell’alimentazione”, a cui abbiamo rivolto alcune domande sul tema specifico.
Come può arrivare un atleta a sviluppare disturbi dell’alimentazione tali da comprometterne la salute?
Va ricordato come lo sport produca sulla salute di chi lo pratica numerosi effetti benefici: dal punto di vista metabolico abbassa il colesterolo LDL, conosciuto come colesterolo “cattivo”, migliora i livelli del glucosio nel sangue e della pressione arteriosa , favorisce il corretto mantenimento del peso, abbattendo così i più importanti fattori di rischio cardiovascolare, previene l’insorgenza di osteoporosi e dal punto di vista psicologico riduce i sintomi di ansia, stress e depressione. Tuttavia, quando lo sport diventa troppo competitivo, è arduo non superare quella linea sottile che separa il benessere dal danno fisico. La passione, la determinazione, una personalità particolarmente competitiva, sono caratteristiche che inducono gli atleti a spingersi mentalmente e fisicamente “oltre” per eccellere nello sport da loro praticato. Questa condizione dovrebbe essere accompagnata, soprattutto negli adolescenti, da un apporto nutrizionale qualitativamente e quantitativamente adeguato sia a sostenere le loro performance sportive che il loro stato di salute. A volte invece alcuni aspetti, come la partecipazione a sport dove il peso, la magrezza, la pressione a mantenere un basso peso corporeo e allenamenti a elevata intensità diventano condizionanti, l’eccessiva pressione dell’allenatore, possono portare un atleta a cambiamenti nutrizionali tali da assumere una rilevanza clinica da compromettere non solo la performance, ma la stessa salute dell’atleta. Qualora si dovesse creare uno squilibrio tra l’assorbimento energetico legato all’alimentazione e il dispendio legato all’esercizio fisico, si verrebbe a creare una condizione identificata con il nome di “relative energy deficiency in sport”, in cui una bassa disponibilità energetica diventa insufficiente non solo per garantire la corretta performance dell’atleta, ma soprattutto per supportare la spesa energetica richiesta dal mantenimento del suo stato di salute.
Quali conseguenze può avere un basso carico energetico per un atleta?
L’organismo, in questa situazione, mette in atto una serie di meccanismi adattativi che tendono nelle fasi iniziali a proteggerlo dal deficit energetico che si è instaurato, come la diminuzione del metabolismo attraverso una minore funzionalità tiroidea, la messa in stand-by del sistema riproduttivo attraverso l’instaurarsi di cicli anovulatori nelle atlete, così da lasciare le carenti risorse energetiche rimaste, per le funzioni essenziali alla sopravvivenza. Meccanismi adattativi che però a lungo andare possono portare allo sviluppo e al mantenimento di vere e proprie complicanze cliniche che possono coinvolgere diversi sistemi e apparati, da quello endocrino a quello cardiovascolare, riproduttivo, scheletrico, immunitario.
Quali sono i disturbi clinici più diffusi nei quali può incorrere uno sportivo vincolato da limiti di peso per la disciplina che pratica?
Gli effetti di una bassa disponibilità energetica possono oscillare da un’alterata perfomance, con una diminuzione della resistenza, aumentati tempi di recupero, maggior irritabilità, difficoltà di concentrazione con una risposta minore all’allenamento, fino ad arrivare a veri danni fisici come una significativa diminuzione della densità ossea con conseguenti fratture, alterazioni mestruali nelle donne che possono essere caratterizzate da un ritardo di comparsa del menarca nelle più giovani, alla scomparsa del ciclo mestruale in atlete postadolescenti, disturbi che tendono a coinvolgere altri apparati (cardiovascolare, endocrino) e sistemi come quello immunitario, con un abbassamento delle difese e una maggior predisposizione alle infezioni.
In ambito sportivo i disturbi nutrizionali colpiscono esclusivamente le donne?
Colpiscono le donne in maniera preponderante, non c’è dubbio, ma questo non vuol dire che il sesso maschile sia immune da questo tipo di problemi. L’anoressia atletica per esempio, caratterizzata da un’intensa paura di aumentare di peso, accompagnata da una riduzione dell’introito calorico e spesso dalla pratica di un esercizio fisico eccessivo-compulsivo, colpisce anche l’atleta di sesso maschile. Tant’è che l’ultima stesura del DSM-5, strumento diagnostico-nosografico di riferimento medico di rilevanza mondiale, nell’ambito della sezione dedicata ai disturbi alimentari, ha abolito tra i criteri diagnostici dell’anoressia l’amenorrea, proprio perché non applicabile al sesso maschile coinvolto anch’esso da questo disturbo.
Ci sono spie in grado di segnalare se i comportamenti alimentari anomali siano transitori o persistenti in un atleta?
Sicuramente sì, anche se segni e sintomi variano da un atleta all’altro. Alcuni però sono comuni: stanchezza eccessiva, diminuzione della forza muscolare, presenza di infezioni ricorrenti, di fratture cosiddette “da stress”, disturbi mestruali nelle atlete, difficoltà di recupero e diminuito rendimento della performance sportiva. È fondamentale quindi che vengano individuate quanto prima per un intervento precoce, per questo è importante una prevenzione basata su formazione e informazione che coinvolgano tutto il team che ruota intorno all’atleta, non solo il medico sportivo, ma anche l’allenatore che riveste un ruolo fondamentale nella possibilità di monitorarlo e consigliarlo, la famiglia e lo stesso atleta, che “deve sapere”, evitando attraverso una corretta formazione comportamenti che solo apparentemente potrebbero all’inizio migliorare la sua performance, ma che a lungo andare comprometterebbero non solo questa, ma il suo stesso stato di salute.
In che modo i preparatori atletici possono aiutare a monitorare le abitudini alimentari degli atleti?
La figura dell’allenatore è molto importante considerando il ruolo che può avere sulle abitudini alimentari di un atleta, per questo deve essere formato per confrontarsi in maniera costruttiva con questo aspetto così delicato. Deve essere in grado di non scambiare per caratteristiche della personalità di un “buon atleta”, comportamenti e tratti caratteriali come il perfezionismo, la tendenza al forte impegno, l’eccessiva compiacenza, il controllo eccessivo del peso per cui vengono messi in atto comportamenti cosiddetti “disturbati” (uso di farmaci, induzione del vomito ecc), che potrebbero essere invece “campanelli d’allarme” di una condizione patologica ancora reversibile. Allenatori formati vuol dire capaci di educare un atleta a sostenere la propria salute, dando enfasi al corretto uso dell’alimentazione che attraverso un adeguato apporto nutrizionale condurrà a una migliore capacità di prestazione; saper ridimensionare i miti che associano un’eccessiva riduzione del peso e del grasso corporeo e il miglioramento della prestazione sportiva; evitare di parlare in termini positivi dell’uso di sostanze diuretiche o lassative per controllare il peso. La formazione è “l’enzima del cambiamento”.
Sono state individuate discipline sportive potenzialmente più rischiose per i disturbi alimentari?
È stato scientificamente dimostrato che alcuni sport che enfatizzano la magrezza per migliorare la performance e l’estetica possano aumentare il rischio di sviluppare un disturbo dell’alimentazione. Si tratta dei cosiddetti lean sports. Ne fanno parte quelli in cui è richiesta una determinata classe di peso (sport da combattimento, equitazione); gli sport di endourance, in cui si crede che un basso peso e un corpo magro possano conferire un vantaggio competitivo (corsa di lunga durata, ciclismo, sci da fondo); sport tecnico-combinatori ed estetici che sono condizionati da una valutazione qualitativa della forma (ginnastica artistica, tuffi, nuoto sincronizzato, pattinaggio artistico); sport in cui l’abbigliamento rileva la forma del corpo (pallavolo, tuffi, nuoto).
Da sempre ci sono stati atleti che hanno “lottato” con la bilancia per raggiungere il peso forma. Cosa è cambiato oggi rispetto al passato?
È cambiato il fatto che oggi siamo certi, scientificamente parlando, dei danni alla salute che un basso livello energetico può provocare in un atleta, indotto volontariamente o per errata conoscenza, dell’atleta stesso o di chi lo accompagna nel suo percorso sportivo. Torniamo al concetto fondamentale della formazione, conoscere per sapere come agire, soprattutto per un atleta che ha bisogno di energia per allenarsi, per gareggiare, un atleta che deve essere informato al riguardo da personale opportunamente formato.
È in programma un protocollo per effettuare monitoraggi ad hoc per i nostri atleti delle Fiamme oro?
La presenza di ben 22 discipline all’interno del Gruppo sportivo della Polizia di Stato, tra cui alcune come judo, pugilato, nuoto sincronizzato, equitazione, ciclismo, atletica leggera, potenzialmente più a rischio, porta sicuramente alla possibilità di un’applicazione strutturata dal punto di vista scientifico, di un attento monitoraggio sui nostri atleti nei confronti di una corretta prevenzione sull’insorgenza di disturbi dell’alimentazione.