Antonella Fabiani
Le ali della libertà
La ricorrenza dell’ 8 marzo è l’occasione per parlare delle donne vissute in ambito criminale rimaste uccise per aver scelto un percorso di legalità e di quelle che hanno mantenuto un legame con i propri cari vittime della mafia
Le donne e la Primavera sono le protagoniste di marzo. Due le date per festeggiarle, l’8 in cui trionfa il giallo dell’acacia dealbata, chiamata comunemente mimosa, e il 21, giorno dell’equinozio in cui le ore della luce e del buio si equivalgono in una sorta di armonioso equilibrio. Dal quel momento astronomico il giorno supererà la notte a indicare la capacità di rinnovarsi della Terra e della natura. E chi più delle donne reca in sé la capacità di condurre avanti l’energia della vita! Anche se a volte quell’energia è dolore, eccole trasformarlo con coraggio per andare comunque avanti. E sempre a marzo, oltre alle donne, anche la memoria ha il suo giusto riconoscimento. Perché rinnovarsi è comunque anche portare avanti quello che non si deve dimenticare, come tutti coloro che sono stati uccisi dalla violenza della criminalità. Ad esse Libera (l’associazione fondata da don Luigi Ciotti nel 1995) ogni anno, il 21 marzo, dedica la Giornata della memoria e dell’impegno in ricordo delle vittime innocenti delle mafie, perché in quel giorno di risveglio della natura si rinnovi la primavera della verità e della giustizia sociale. In questo giorno (dal 1996) ogni anno vengono letti i nomi delle vittime, circa 900, in una città diversa davanti a vedove, figli senza padri, madri e fratelli. Per non dimenticare.
Ma tra i nomi delle vittime di mafia ci sono anche quelli di molte donne che nate o vissute in contesti mafiosi, nonostante la violenza e le crudeltà fisiche e morali a cui sono sottoposte, vincono la paura e l’omertà in cui sono cresciute e trovano il coraggio di ribellarsi. Sono molte e per tutte non basterebbe lo spazio. Raccontare il dramma di qualcuna di loro sarà l’omaggio a tutte le altre. Al loro coraggio.
Una di queste storie è quella che riguarda Rita Atria che vede morire il padre (Vito Atria, un mafioso della locale cosca a Partanna ucciso in un agguato nel 1985) quando ha 11 anni. La situazione familiare in cui viveva Rita è pesante. Lei è molto attaccata al padre che però è particolarmente violento nei confronti di sua madre, tanto che la picchia e non le nasconde di avere altre donne che porta anche dentro casa. Quando muore il padre, lei si lega moltissimo al fratello che a sua volta viene ucciso a Partanna e a quel punto, sull’esempio della cognata Piera Aiello che era già entrata in un programma di protezione, decide di collaborare come testimone di giustizia. Rita decide di parlare e lo fa con i magistrati Alessandra Camassa e Paolo Borsellino e a, quel punto, la madre comincia a dare in escandescenze: ha paura che la figlia possa essere uccisa e denuncia i magistrati per sottrazione di minore. Si crea una frattura fortissima tra Rita e la madre che cerca in tutti i modi di bloccare la collaborazione. Ma Rita continua a parlare con Borsellino con il quale crea un ottimo rapporto, però poi, a una settimana dalla strage di via D’Amelio, si uccide buttandosi dal balcone del nuovo appartamento che le era stato assegnato a Roma. Il dramma di questa ragazza continua nell’epilogo, perché a Partanna il sacerdote non celebra la messa in chiesa in quanto la ragazza si è suicidata, però la sua bara verrà portata dalle donne dell’Associazione donne contro la mafia, qualche giorno dopo la sepoltura la madre romperà con un martello la foto sulla lapide della tomba di Rita dicendo appunto “questa non è mia figlia”.
«In genere le donne che decidono di rompere il silenzio e di uscire dal contesto criminale in cui vivono pagano un prezzo elevatissimo – spiega Alessandra Dino, docente di Sociologia giuridica e della devianza presso il Dipartimento culture e società dell’università degli studi di Palermo – e questo prezzo è ancora più alto per quelle donne che nascono in famiglie mafiose. La storia di Giusy Vitale, sorella di Vito e di Leonardo, esponenti di spicco di Cosa nostra a Partinico, è diversa da quella di Carmela Iuculano che, non provenendo da una famiglia mafiosa, sposa Pino Rizzo, il cui padre Giuseppe e lo zio Angelo sono uomini d’onore mentre l’altro zio, Rosolino, è rappresentante della zona di Sciara e di Cerda. Riuscire a ribellarsi è più difficile se nasci all’interno di una famiglia di mafia; difficile sottrarsi al duplice richiamo degli affetti e dell’appartenenza. Occorre inoltre sfatare un mito e far notare come nei contesti mafiosi ci sia molta crudeltà e violenza nei confronti delle donne. Il controllo capillare del territorio si estende spesso sui corpi femminili e le donne sperimentano l’esperienza di molestie e violenze, anche di tipo sessuale, in barba ai proclami apologetici di una presunta cultura dell’onore e del rispetto. Storie di abusi, di botte, di imposizioni che in non poche occasioni spingono molte di loro a pensare al suicidio, come unica via di uscita da un dolore non più sopportabile e alla morte come unico epilogo a un faticoso tentativo di ribellione. Come accade a Maria Stefanelli che per sfuggire a una storia di abusi familiari sposa il boss di ‘Ndrangheta Francesco Marando sperimentando in questo matrimonio una violenza ancora più truce, fino al punto di pensare al suicidio. O come succede a Lea Garofalo che prima di essere uccisa e sciolta nell’acido dal marito Carlo Cosco scrive una lettera al presidente della Repubblica che suona come un presagio di morte e un’estrema richiesta di aiuto».
«Rimanendo nel contesto della ‘Ndrangheta, occorre ricordare le storie strazianti di Maria Concetta Cacciola e di Tita Boccafusca che pagheranno con una morte atroce il tentativo di fuoriuscita dal mondo mafioso accompagnato dalla ricerca di trovare una sponda istituzionale al loro desiderio di libertà. Pur con i dovuti distinguo, l’iter della loro storia è simile. Dopo aver subito pressioni fortissime da parte dei loro familiari metteranno fine alla loro vita ingerendo dell’acido: un gesto simbolico molto forte – spiega la sociologa Dino – sciolti nell’acido gli infami e i nemici di cui non deve rimanere alcuna traccia, bruciate nell’acido anche le speranze di una fuoriuscita pacifica dal sodalizio criminale. Particolarmente travagliata la vicenda di Maria Concetta Cacciola che pochi giorni prima di morire registra un singolare e angosciante messaggio che ha tutte le caratteristiche di una pubblica ritrattazione; un rituale attraverso cui, scagionata la famiglia da ogni colpa, la giovane donna attribuisce a se stessa e alla sua fragilità una collaborazione piena, a suo dire, di falsità».
«Altro caso emblematico delle pressioni a cui sono sottoposte le donne di mafia è quello di Giuseppina Pesce, figlia, sorella, moglie, nipote, cugina di importanti sodali della omonima cosca calabrese che estende il suo potere da Reggio Calabria a Milano, continua la sociologa. Arrestata con l’accusa di intestazione fittizia di beni e associazione mafiosa, prima tenta per due volte il suicidio in carcere e poi, nell’ottobre del 2010, decide di collaborare con la giustizia. A un certo punto, però, accade qualcosa che le fa cambiare idea. Dopo circa sei mesi dalla sua decisione di collaborare fa marcia indietro; trova un nuovo avvocato, manda i bambini in Calabria dai nonni, rifiuta di firmare i verbali dei suoi interrogatori e accusa i magistrati di Reggio Calabria di averla costretta a collaborare, impedendole di vedere i propri figli. Nel giugno successivo, dopo essersi sottratta agli arresti domiciliari torna a scontare la sua pena in carcere. Ma la sua storia registra un altro colpo di scena. Dopo una prima missiva inviata alla fine del mese di giugno, nell’agosto del 2011 Giuseppina scrive una lunga lettera ai magistrati di Reggio Calabria in cui chiede di poter tornare a collaborare, spiegando di essere uscita dal programma di protezione in un momento di fragilità, per amore dei figli, costretti a vivere lontani dalla famiglia. Giuseppina trova la forza di sottrarsi a un destino che sembra già segnato, a un copione che, come lei stessa racconterà, sembra già scritto».
«Ricordare queste vicende cruente non significa affermare che gli esiti dei tentativi di fuoriuscita dal sodalizio mafioso siano sempre tragici – osserva Alessandra Dino – esistono donne vissute in ambiti mafiosi che sono riuscite a intraprendere dei percorsi di collaborazione con la giustizia anche grazie all’appoggio dei figli come nel caso di Carmela Iuculano. Carmela racconterà di aver iniziato il suo percorso di collaborazione con la giustizia, spinta dalle figlie che, al ritorno dal suo breve periodo di carcerazione, le diranno di vergognarsi di lei e di sentirsi emarginate dai compagni di scuola per via dei loro genitori. Sarà la stessa Carmela a raccontare le sue difficoltà nel dover imparare un nuovo modo di vivere, di comportarsi di pensare ma anche di parlare, una volta venuta fuori dall’ambiente mafioso».
Di fronte a queste storie ci si domanda se l’istruzione, un più elevato livello culturale, possa aiutare a cambiare la vita di queste donne, a emanciparle dalla loro condizione di vittime di violenze inaudite all’interno dei contesti criminali: «Non si può pensare a Cosa nostra solamente come a un’organizzazione criminale che si afferma con la violenza fisica – osserva Alessandra Dino – ci sono donne che vengono utilizzate come medici, commercialiste, farmaciste. La dimensione transnazionale dei traffici economici, il connubio con la criminalità dei potenti richiede anche il ricorso a “tecniche di neutralizzazione” che, attraverso i processi educativi, tendono a far passare come “normali” comportamenti che tali non sono. Le donne più scolarizzate sono importanti nella misura in cui vengono impiegate, in virtù delle loro competenze, nelle attività più delicate come, ad esempio, il riciclaggio dei capitali. Dunque non è detto che un più elevato livello di scolarizzazione sia garanzia di un più elevato livello di legalità. Invece ritengo che l’oppressione, il mancato riconoscimento del ruolo femminile all’interno del contesto mafioso possano essere la molla per una presa di coscienza della propria identità; che la sofferenza possa divenire un punto di partenza verso un processo di emancipazione dalla violenza subita. Normalmente – continua la sociologa – la fuoriuscita di queste donne dai contesti criminali non nasce da una decisione razionale. Spesso, invece, è attivata dal desiderio di libertà, dall’insopportabilità del clima di oppressione, da un innamoramento, dalla paura per la vita dei propri figli. È questo desiderio di libertà a cambiare il loro sguardo sulla loro vita e far loro rivedere la propria esistenza sotto un’altra luce, riconoscendo lo squallore del contesto in cui hanno vissuto».
«Penso che le relazioni affettive, il rapporto con i figli, possano essere uno dei punti su cui fare leva – continua Alessandra Dino – per far sì che molte di loro trovino il coraggio di uscire dai contesti criminali. Sono convinta che la società civile, le forze dell’ordine, la magistratura possano aiutare queste donne nel difficile processo di recupero della propria soggettività, mostrando loro che è possibile una vita alternativa a quella che hanno sperimentato con fatica. In questo modo le donne potrebbero divenire un efficace grimaldello per scardinare la tenuta delle organizzazioni criminali». Queste donne devono avere una spinta emotiva forte per uscire dalle famiglie criminali in cui sono cresciute o entrate a far parte. Il vero problema è quello di garantire loro una vita differente, perché la fuoriuscita dall’organizzazione criminale implica sempre un prezzo altissimo da pagare.
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La passione e il coraggio: intervista a cristina fava
Giuseppe Fava è stato un giornalista, scrittore, drammaturgo, ucciso da Cosa nostra a Catania nella sera del 5 gennaio 1984, poco dopo essere uscito dalla redazione del suo giornale I Siciliani. Cristina Fava sua nipote, è commissario capo, e da due anni ricopre l’incarico di vice dirigente all’Ufficio prevenzione generale e soccorso pubblico a Genova. La raggiungiamo al telefono dove parla con trasporto ed emozione per la prima volta della sua famiglia, di sua zia Elena e di come la scelta di entrare in polizia sia il proseguimento della strada iniziata da suo nonno per praticare i valori della legalità e della giustizia.
Suo nonno ha pagato con la vita la scelta di mettersi contro la mafia attraverso l’attività di giornalista. La scelta di entrare in polizia è stata condizionata dalla sua vicenda?
Sì, la mia scelta di entrare in polizia è stata condizionata da questo evento. Tutta la mia vita è stata influenzata dalla storia di mio nonno che è stata tramandata e portata avanti nella mia famiglia. Lui era un uomo di grandi ideali e passioni civili e con le sue scelte è riuscito a trasmetterci un grande senso di giustizia, l’importanza dei valori della legalità. Sono tutti elementi che inevitabilmente hanno influenzato le mie scelte professionali. L’idea di diventare poliziotta è maturata nel tempo e ora penso che sia il mestiere più bello del mondo.
Cosa ricorda di suo nonno?
Avevo pochissimi mesi e non ho ricordi diretti, ma so che era molto legato a me che ero la più piccola. Nonostante fosse molto impegnato, è stato sempre molto presente in famiglia, non c’è stata una partita di pallanuoto di mio padre che non sia andato a vedere. Per lui l’impegno nello sport e nello studio erano fondamentali. Su questo non transigeva e poi amava viaggiare, il teatro, l’opera. Era una persona molto ironica e amava molto la vita ed era legatissimo ai figli e a noi nipoti. Anche quando aveva capito che stava rischiando non ha mai lasciato trapelare nulla, tornava a casa sempre sorridente. In realtà sapeva quello che poi sarebbe accaduto, ma non ha mai fatto percepire questo suo timore in casa.
Sua zia Elena ha contribuito molto alla diffusione del ricordo del padre attraverso numerose battaglie civili. Come la ricorda?
Mia zia per me è stata come una madre, io sono cresciuta con lei e le mie cugine. È stato il pilastro della mia famiglia perché era una donna fortissima e il suo grande pregio è stato quello di riuscire a trasformare un evento drammatico come quello dell’uccisione del padre in un impegno di vita, una missione, che lei ha svolto con un amore e una solarità che le ha consentito di tramandare la storia della nostra famiglia, della nostra città e quello che ha fatto mio nonno a moltissimi giovani di tutta Italia. Tenendo conto che non è facile parlare ai ragazzi che vivono a Bolzano di quello che succede a Catania, lei invece, riusciva perché era una donna molto empatica e non parlava di suo padre come di un eroe, ma di un uomo che con grande coraggio ha tentato di far aprire gli occhi a una città completamente in ginocchio, soprattutto in quegli anni. E questo lo ha fatto mia zia con immenso amore e mai con vittimismo.
Sua zia è riuscita a far intitolare a Catania una targa a Giuseppe Fava e nel 2007 a istituire un premio nazionale.
Per lei è stato fondamentale questo premio contro le mafie a cui partecipano molti giornalisti impegnanti nella scrittura d’inchiesta. Un altro successo è stato di poter coinvolgere anche le scuole. I ragazzi raccontano delle storie che sono molto attuali perché riguardano le loro città.
Qual è secondo lei il contributo che le donne possono dare nella lotta contro la mafia a favore di una cultura di legalità?
Credo che le donne abbiano una sensibilità diversa, una capacità di amore e soprattutto una consapevolezza di sé e della realtà che le circonda che consente loro di portare avanti i propri ideali in modo diverso da quello maschile. Noi donne siamo generalmente più sensibili e concrete e questo si tramuta in un maggiore impegno nelle cose che facciamo. Oggigiorno molte hanno raggiunto posizioni apicali, anche in senso negativo. Nelle organizzazioni criminali occupano ruoli importantissimi e gestiscono imperi quando i loro uomini si trovano in galera.
Penso che bisognerebbe cercare di dare loro un’alternativa, tirarle fuori insieme ai loro figli. Fare comprendere che c’è la possibilità di una vita diversa. Questo sarebbe un grande intervento perché le donne nella mafia hanno un ruolo centrale.
Suo nonno è stato ucciso nel 1984, sono passati 33 anni. Il fronte mafioso è rimasto uguale o qualcosa è cambiato?
Le cose sono un po’ mutate ma c’è ancora tanto da fare. Il problema è cambiare la testa delle persone. Bisogna insegnare alla gente a innamorarsi della propria terra, del proprio Paese, a non occuparsi solo del proprio giardino. Cambiare la mentalità per fare sì che la gente si innamori di ciò che è suo, che è nostro alla fine di tutto. E in questo è importante partire dai più giovani.