Anacleto Flori
Invisibili
Alla scoperta del Servizio centrale di protezione testimoni e collaboratori di giustizia. Un lavoro oscuro ma fondamentale
Le voci metalliche, gutturali, sapientemente distorte da qualche effetto speciale e le sagome dei corpi appena visibili, schermati da separè o immersi nel buio. Così abbiamo visto, e ascoltato, per anni testimoni e collaboratori di giustizia deporre nelle aule dei tribunali contro il boss di turno. Nessun tratto somatico deve tradire l’identità di quelle persone che per coraggio, senso della giustizia o solo per pura convenienza hanno scelto di rompere l’omertà, denunciare un colpevole, fare nomi, raccontare fatti e svelare delitti rimasti impuniti per anni. Una scelta che li ha resi per sempre, agli occhi dei mafiosi, degli “infami”. Ed ecco allora che quei testimoni e quei collaboratori devono diventare da un giorno all’altro uomini e donne senza più un volto. Devono lasciare i luoghi che li hanno visti nascere e crescere, entrare in un protettivo, ma inquietante cono d’ombra che tutto nasconde, ma soprattutto devono imparare a mimetizzarsi con l’ambiente circostante, fino a diventare invisibili, quasi incorporei. Anche le loro vere identità devono essere cancellate, cambiate, affidate all’oblio, perché i boss mafiosi difficilmente dimenticano il nome di un “infame”. Da quel momento, da quella scelta di rottura con il passato le esistenze dei testimoni, dei collaboratori di giustizia e dei loro familiari sono appese a un filo. Spetta allora allo Stato, quello stesso Stato che ha avuto un aiuto prezioso nelle indagini, non voltargli le spalle e garantire loro la necessaria protezione e assistenza.
L’importanza di una legge
Il primo a capire l’importanza dei collaboratori di giustizia nella lotta alle mafie e a sollecitare una legge che favorisse il fenomeno del cosiddetto “pentitismo”, prevedendo speciali misure di protezione, è stato Giovanni Falcone. Quando, a metà degli Anni ’80, il boss dei “due mondi” Tommaso Buscetta (al centro, nella foto a destra) iniziò a collaborare con i giudici impegnati nel cosiddetto “Maxiprocesso”, a Falcone si aprì un mondo fino ad allora sconosciuto fatto di legami di sangue, di riti di iniziazione, di codici d’onore e di strutture gerarchiche. Insomma, Buscetta fornì agli investigatori la chiave d’accesso per penetrare nelle stanze più segrete dei “mandamenti” e della “Cupola”. Grazie alle sue rivelazioni si squarciò quel velo di omertà che aveva reso fino ad allora impossibile comprendere cos’era e come funzionava Cosa nostra.
Nonostante le pressanti richieste di Falcone, e i successi nella lotta alla criminalità organizzata conseguiti anche grazie al crescente numero di collaboratori di giustizia, da Totuccio Contorno a Francesco Marino Mannoia, la prima legge che regolò in maniera organica la protezione dei collaboratori di giustizia, in grave pericolo per le dichiarazioni rese nel corso delle indagini, venne approvata solo all’inizio degli Anni ’90 (legge n.82 del 15 marzo 1991). Successivamente, con la legge n.45 del 13 febbraio 2001, vennero introdotte alcune importanti novità, tra cui la fondamentale distinzione (giuridica e di trattamento) tra la figura del collaboratore di giustizia e quella del testimone. Ma già la legge 82 del 1991 individuava i tre pilastri fondamentali su cui avrebbe poggiato il sistema di protezione. Il primo è il procuratore della Repubblica (o il magistrato preposto alla Procura distrettuale antimafia), che propone le misure di protezione, il secondo è la Commissione centrale per la definizione e l’applicazione delle speciali misure di protezione, cui spetta il compito di concedere tale misure (ma anche di revocarle) e il terzo è il Servizio centrale di protezione (Scp), struttura interforze inquadrata presso il Dipartimento della ps – Direzione centrale della polizia criminale, chiamato ad attuare le decisioni prese.
Il Servizio centrale di protezione
«Se la Commissione centrale diretta dal vice ministro dell’Interno Filippo Bubbico (vedi intervista a pag. 19) può essere considerata come la mente del programma di protezione, noi siamo sicuramente il braccio esecutivo», spiega il dirigente superiore della Polizia di Stato, Andrea Caridi, attuale direttore del Servizio centrale di protezione. Quella diretta da Caridi, è una di quelle strutture che raramente salgono agli onori della cronache, preferendo, al contrario, mantenere un low profile, al punto che pochi ne conoscono la complessità e la delicatezza dei compiti svolti. Alla necessità di lavorare a fari spenti e di garantire un altissimo livello di segretezza sull’identità dei nuclei protetti, fa però da contraltare la scelta di grande trasparenza sull’attività della Commissione centrale e del Servizio, al punto che tutte le misure adottate sono oggetto di una puntuale relazione presentata semestralmente al Parlamento. In effetti, è proprio attraverso le pagine di questo rapporto che ci si rende conto della mole di lavoro che è chiamato a svolgere il Servizio centrale di protezione. «In Italia, alla data del 30 giugno 2016 – continua Andrea Caridi – risultavano censiti 78 testimoni e 1.277 collaboratori di giustizia, di cui 515 in libertà, 478 beneficiari delle misure alternative alla detenzione e 284 ristretti in istituti penitenziari. Se a questi si aggiungono anche i rispettivi nuclei familiari, ecco che arriviamo a quota 6.525 persone da proteggere su tutto il territorio nazionale». Un bell’impegno per i circa 800 operatori provenienti da Polizia di Stato, Arma dei Carabinieri, Guardia di Finanza e, in misura minore, anche dall’Amministrazione civile dell’Interno e dalla Polizia Penitenziaria. Per dare un’idea dei compiti che il personale è chiamato quotidianamente ad affrontare, è sufficiente prendere in esame uno dei tanti servizi svolti, quello di scorta e accompagnamento: dall’ultimo rapporto presentato in Parlamento emerge che nel primo semestre 2016 sono stati 163 i servizi di