Cristiano Morabito
Liberi di giocare
Rugby e carcere, un connubio che alla “Dozza” di Bologna è diventato realtà
Esiste il mondo che conosciamo, quello in cui si va ad innestare la nostra vita fatta di routine quotidiane, di lavoro, famiglia, affetti, tempo libero, e altri mondi paralleli dei quali conosciamo poco o dei quali, forse, preferiamo non conoscere l’esistenza perché ci piace immaginarli così come ci vengono dipinti dai giornali o così come li abbiamo visti nei film. Sono mondi nei quali spesso e volentieri non si capita per caso o per scelta, ma per motivi ben precisi che ci hanno fatto optare per un certo tipo di vita. Il confine tra un mondo e l’altro non sembra, è talmente labile da spaventare quando se ne conosce l’esistenza e quando ci si entra in contatto.
Sono luoghi un po’ al margine della società, fatti proprio per chi ha commesso qualcosa ai danni di quella società e che, come scopo principale, hanno quello di permetterti di rientrarci oppure di allontanartene per sempre. Luoghi strani, unici, nei quali il tempo sembra scorrere in maniera diversa; basta attraversare un cancello, sentirselo chiudere alle spalle e si ha subito la sensazione di aver attraversato una specie di “stargate” che conduce direttamente in un’altra dimensione, dove tutto scorre più lentamente, dove quando incontri le persone che lo abitano, inizi a farti decine di domande, che ti costringono a pensare e ti fanno completamente dimenticare che ormai è qualche ora che non hai più con te la tua preziosa attrezzatura tecnologica che hai dovuto lasciare all’ingresso dello “stargate”, ma che non ti manca più perché i tuoi pensieri hanno ormai riempito quel vuoto.
Ci si inizia a chiedere che cosa mai possa succedere lì dentro, come si possano passare intere giornate chiusi in una stanza poco più grande di un ripostiglio, come si possa pensare di passeggiare avanti e indietro per un’ora al giorno in uno spazio più piccolo del cortile di un asilo, con mura in cemento armato alte oltre quattro metri e guardati a vista. Domande, domande e ancora domande che spazzano via la curiosità morbosa di guardare quali persone vivano lì dentro e cosa facciano, e fanno pensare profondamente a quello che si ha e a quanto costerebbe perderlo.
Pensieri profondi che, a un certo punto, vengono bruscamente interrotti; lì, proprio lì, guardando attraverso una piccola finestra dalla quale il sole filtra “a scacchi” si intravede un qualcosa che, all’interno di quel luogo, non ci aspetterebbe proprio di trovare: un prato rettangolare, due panchine su uno dei due lati lunghi, delle righe segnate con precisione con il gesso che lo delimitano e i pali alti delle porte da rugby.
Un campo da rugby all’interno di un carcere? Qui si pratica anche dello sport? E per giunta uno sport che, nell’immaginario collettivo, non è proprio da considerarsi “per signorine” e dove se le danno di santa ragione? Qui, proprio in un carcere?
Ebbene sì, sembrerà strano, ma qui al carcere bolognese della “Dozza” è davvero così. Qui, ormai da tre anni, esiste un progetto che ha portato la palla ovale tra le sbarre. Un’iniziativa partita nel 2010 quando un gruppo di veri e propri temerari decise di portare questo sport fatto da centinaia di regole a chi le regole le aveva perdute per strada: «Una vera e propria sfida – ci racconta Stefano Cantoni, responsabile del “Progetto carceri” per la Federazione italiana rugby – che non è stata di semplice attuazione, dovendo affrontare non solo problemi logistici come la presenza di campi da gioco all’interno delle strutture carcerarie, ma anche burocratici e di diffidenza nei confronti di uno sport che all’apparenza può sembrare violento, ma che alla base ha concetti fondamentali come quelli della correttezza e del rispetto. Ma alla fine, grazie anche all’appoggio di persone delle Istituzioni che ci hanno creduto, siamo riusciti a partire con il nostro “folle” progetto, che oggi è attivo in molti istituti e che in tre di questi (Torino, Frosinone e Bologna) ha permesso alle squadre di iscriversi a veri e propri campionati federali».
Sì, qui si gioca a rugby davvero! Infatti, la squadra del carcere di Bologna è iscritta al campionato di Serie C2, nel girone dell’Emilia Romagna. Anche il nome che porta è particolare: Giallo Dozza, lì dove “giallo” sta a indicare il cartellino con cui l’arbitro nel rugby decreta l’espulsione temporanea (10 minuti) di un giocatore dal campo per un fallo particolarmente grave; e l’immagine del rugbista che deve restare fuori dal campo per quei minuti e lasciare i suoi compagni in inferiorità numerica, ben si accosta all’espulsione temporanea dalla società civile che hanno subito le persone che vivono qui.
Dunque, una squadra vera, con tutti i crismi del caso, composta da una rosa di circa trenta giocatori di ben 14 nazionalità diverse, che si allena sul campo per due ore tre giorni a settimana, un giorno segue lezioni di teoria in aula con proiezioni video, e che ha anche uno staff composto da presidente, allenatore, team manager (Chiara Benfenati) e medico, ma che ha una particolarità unica: gioca sempre in casa.
«Questi ragazzi prima erano delle persone che affrontavano il regime carcerario individualmente, oggi lo fanno come una vera e propria squadra, sostenendosi l’un l’altro, aiutando chi si trova in difficoltà, un poco alla volta, così come nel rugby in meta non ci si arriva da soli, ma aiutati sempre da chi sta dietro lottando centimetro dopo centimetro – racconta Stefano Cavallini, uno dei volontari che ha sposato in pieno il progetto e presidente del Giallo Dozza – Quando abbiamo iniziato, nel 2013, non è stato semplice, soprattutto perché dovevamo mettere insieme una rosa fatta da giocatori che non avevano mai preso in mano una palla ovale e, soprattutto, far capire che uno sport di combattimento come il rugby prevede che le tante regole che lo compongono vengano rispettate senza se e senza ma. Ma alla fine ce l’abbiamo fatta e oggi sul campo ne vediamo i frutti».
La sensazione costante che si ha parlando con chi ha preso a cuore e si è battuto per questa iniziativa è di entusiasmo e fierezza di quel che si è riusciti a creare all’interno di un luogo particolare come può essere un carcere: «E se queste persone che hanno fatto i conti con la violenza, quella vera – continua Cavallini – oggi riescono a convogliare le proprie energie in una dinamica di controllo della propria aggressività, vuol dire che siamo riusciti nell’intento che ci eravamo prefissati quando decidemmo di iniziare questa avventura».
E sono proprio i numeri che parlano chiaro, perché è stata calcolata una riduzione dell’80% della recidiva in chi, tra quelli che hanno partecipato al progetto, una volta usciti dal carcere tornano alla vita normale.
Quindi, sembra che il fine ultimo della detenzione, ossia quello del reinserimento nella società dopo aver scontato la pena, non sia un vero e proprio miraggio, ma qualcosa di concreto che, attraverso lo sport, come con il lavoro “vero” imparato all’interno di un penitenziario (a Bologna c’è anche un’officina metalmeccanica e presto verrà aperto anche un caseificio) possa davvero essere raggiunto, così come dice Antonio Molinaro, ispettore capo della polizia penitenziaria e responsabile anche del progetto-rugby all’interno del carcere della “Dozza”: «Perché la cosa funzionasse davvero, era necessario far nascere in loro quello “spirito di squadra” tipico proprio del rugby e allora abbiamo pensato di trasferire tutti gli atleti-detenuti nella stessa ala della struttura. Ed è stata un’intuizione vincente, perché abbiamo davvero potuto notare un reale cambiamento di atteggiamento dei detenuti, anche nei confronti di chi li deve “vigilare”, oltre ad averli resi una vera e propria squadra. Certo, di questo progetto non possono far parte tutti; ci sono dei paletti da rispettare, infatti sono esclusi a priori gli appartenenti alla categoria dei “protetti” (ad esempio quelli che si sono macchiati di crimini come la violenza sessuale, ndr), quelli che hanno una pena inferiore ai 2-3 anni o la cui posizione giuridica non sia stata ancora definita, o ancora chi è solito commettere atti di autolesionismo». Una selezione vera e propria fatta in collaborazione con il Got del carcere, il Gruppo osservazione e trattamento, che valuta l’affidabilità e la stabilità dei detenuti. Una selezione che, però, deve anche tenere conto di caratteristiche fisiche e della quale si occupa anche quello che definire semplicemente il coach del Giallo Dozza sarebbe riduttivo, perché dai “suoi” ragazzi viene considerato un vero e proprio punto di riferimento, e non solo in campo. Ed è proprio Massimiliano Zancuoghi, per tutti semplicemente “Max”, un passato da rugbista di buon livello passato tra Eccellenza e Serie A, che con il sorriso racconta: «Spesso la mia rosa è soggetta a cambiamenti, perché “purtroppo” quando qualcuno esce da qui dobbiamo rimpiazzarlo e, allora, andiamo in giro anche in altri carceri per fare una sorta di “mercato” dei giocatori e selezionare i nuovi. Però è sempre una gioia vedere che “qualcuno dei miei” ha finito di scontare la pena e torna in libertà; con molti di loro sono rimasto in contatto e in tanti mi hanno chiesto di continuare con il rugby con qualche squadra della zona. Questa per me e per noi è una grande vittoria, forse più grande di quelle che riusciamo a ottenere sul campo, soprattutto se ripenso alla mia “prima volta” qui. Tra me e loro all’inizio c’era un po’ di freddezza, di distacco, perché io ero “quello che veniva da fuori”. Ma se vedo i progressi che abbiamo fatto, non solo dal punto di vista sportivo, allora mi sento davvero fiero di dove siamo arrivati, anche perché, inevitabilmente, i momenti di tensione ci sono stati. Però, quando ho iniziato a vedere chi tira su da terra il compagno che ha subito un fallo o le prime pacche sulle spalle, allora mi sono reso conto che era stata intrapresa la strada giusta, così come quando uno di loro mi ha detto: “Prima di conoscere questo sport con gli altri detenuti si parlava solo di pene, avvocati o argomenti riguardanti la detenzione. Oggi il nostro argomento principale di conversazione è il rugby”. Io ormai – conclude il coach, pronto per portare in campo i suoi ragazzi – glielo leggo negli occhi: loro sono pienamente consapevoli di dove si trovano e del perché, ma in quegli ottanta minuti in campo i muri cadono, le recinzioni spariscono ed esiste solo quel rettangolo verde con i pali alti». Dunque, missione compiuta: quella vera e propria “malattia incurabile” che è il rugby è riuscita ad attecchire anche qui dentro, ponendo profonde e solide fondamenta anche nel cuore di chi, sebbene detenuto in carcere, lo pratica e che ha ricevuto in pieno il messaggio di questo sport. Come Luigi, che deve scontare una lunga pena, al quale il rugby ha insegnato che «Qui, come nella vita, si va in meta tutti insieme. Anche se c’è qualcuno con cui non vado d’accordo, per il bene della squadra devo aiutarlo, andare avanti e portarlo verso la meta»; o come Duka, albanese quasi a fine pena: «Il rugby mi ha trasmesso quell’autocontrollo che fuori avevo perso, perché è sì uno sport di contatto e combattimento, ma basato sul rispetto reciproco»; o ancora come Fabrizio, 39 anni, rammaricato perché tra tre anni dovrà smettere di giocare (a rugby il limite è 42 anni), ma al quale la palla ovale ha insegnato soprattutto «ad avere rispetto per me stesso; quando sono entrato in carcere mi sono lasciato andare e sono arrivato a pesare 150 kg, ma grazie al rugby mi sono rimesso in forma e ne ho persi ben 50 quasi senza accorgermene»; per finire con Andi, anche lui albanese, il capitano della squadra e figura carismatica rispettata da tutti i compagni di squadra: «Mai avrei immaginato che qui dentro si potesse fare una cosa del genere. Ricordo che una volta se in tv mi capitava di vedere una partita di rugby, cambiavo subito canale. Oggi ritengo che sia lo sport più bello che ci sia e che credo mi rimarrà dentro per sempre perché mi fa guardare al futuro con occhi diversi, tanto che una volta uscito mi piacerebbe continuare, magari come allenatore».
Ma il tempo stringe e i ragazzi devono scendere in campo, perché oggi si gioca contro il Noceto… una partita dura. E allora, cerimonia di consegna delle maglie dalle mani del capitano (oggi divisa nuova con il nome dello sponsor in bella vista), bendaggi, riconoscimento da parte dell’arbitro e si inizia: due tempi da quaranta minuti, su un campo che di certo non è né Twickenham né Murrayfield, dove sulla tribuna ci sono poco più di 15 persone e dove, di tanto in tanto, dalle finestre delle celle qualcuno infila il viso tra le sbarre e urla a pieni polmoni «Forza, Giallo!», ma su quel campo oggi si incontrano trenta “veri” rugbisti che, dopo essersele date di santa ragione, al termine fanno il loro terzo tempo tutti insieme. No, la birra ovviamente non c’è, ma non importa perché ci sono trenta ragazzi che parlano tra loro di come è andata la partita e di tante altre cose. Non importa chi abbia vinto, perché loro, i ragazzi del Giallo Dozza, il loro match lo stanno vincendo. Giorno dopo giorno.
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La prima meta
Quando si pensa a un film sullo sport in carcere, subito la mente torna a Quella sporca ultima meta (1974), dove un ex campione di football americano, interpretato da Burt Reynolds, finisce in carcere, e il direttore gli chiede di formare una squadra di detenuti per un match contro le guardie carcerarie. Ebbene, qui non c’è Burt Reynolds, ma non ci sono neanche attori professionisti, bensì i veri protagonisti di un’avventura particolare: i detenuti.
La prima meta, il docu-film prodotto da Giovanna Canè, con la regia di Enza Negroni (che ha diretto anche il lungometraggio Jack Frusciante è uscito dal gruppo), porta sul grande schermo la realtà del carcere della Dozza e della sua squadra di rugby, raccontando la storia di tre detenuti impegnati nella selezione per entrare a far parte del progetto “Tornare in campo”: dai momenti passati nelle celle, passando per la selezione dei giocatori, fino alla prima partita giocata.
L’idea del film-documentario nasce da due esigenze: approfondire il processo di inclusione attraverso il rugby di detenuti di diverse nazionalità, in particolare dei più giovani con l’allenatore e il capitano della squadra Giallo Dozza, con la formazione di un tessuto sociale multietnico, come solo il carcere riesce a rappresentare. La seconda esigenza è l’utilizzo della forma documentaristica che permette di trasporre l’esperienza della vita carceraria, senza mediazioni, raccontando il tentativo di emergere da un forte disagio.
Il lungometraggio è stato presentato alla 57^ edizione del “Festival dei popoli” lo scorso novembre a Firenze e presto sarà anche nelle sale cinematografiche.