Antonella Fabiani

Non è follia

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Sono considerati dei pazzi dalla maggior parte dell’opinione pubblica. Ma la verità sui terroristi è un’altra. A parlarne lo psichiatra Corrado De Rosa in un recente libro

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La scorsa estate sarà ricordata per i numerosi attentati che hanno fatto salire esponenzialmente la percezione dell’insicurezza a livello planetario. E se ci siamo abituati a vedere, presso le stazioni della metropolitana delle grandi città italiane, soldati dell’esercito armati di tutto punto, è perché il timore di subire un attentato è entrato a far parte degli eventi possibili della nostra vita. Degli attentatori sappiamo quel che viene scritto sui giornali all’indomani di un attentato o di una strage. Quel che basta per considerarli dei malati di mente  che hanno deciso di aderire all’islamismo radicale. Ma è davvero così? Nel gennaio di quest’anno Europol ha diffuso il risultato di uno studio secondo cui il 20% degli jihadisti soffre di disturbi mentali. Partendo da questo, lo psichiatra Corrado De Rosa, nel suo libro Nella mente di un jihadista, ha cercato di rispondere alla domanda se lo siano veramente. Cosa li spinge a radicalizzarsi in nome dell’islamismo estremo, a decidere di combattere e, in alcuni casi, di sacrificare la propria vita? 

«In realtà, la letteratura scientifica ci dice che i terroristi sono tra gli autori di reato a più basso tasso di psicopatologia – spiega lo psichiatra – e definirli sbrigativamente pazzi è un modo, per certi versi, auto-consolatorio di leggerne i comportamenti: una sorta di rinuncia a priori a indagare le motivazioni che spingono a comportamenti apparentemente incomprensibili. Questo approccio significa anche dire a sé stessi: io non sono pazzo, a me questo non potrà mai accadere».

Tre sono le tipologie di convertiti all’Isis individuate che corrispondono a tre percorsi psicologici diversi: per quelli che vivono nei territori dominati dallo Stato islamico può essere una scelta politica e sociale perché consente di avere condizioni economiche migliori. In pratica, l’Isis assicura un futuro tranquillo, una sorta di stato sociale alternativo (asili nido, cure mediche, riduzione di tutti i costi) in una terra desertificata, lacerata dai conflitti, devastata da guerre e distruzioni, dove gli indicatori dicono che la ricchezza è appannaggio di pochi e che la povertà è vastissima. 

 

Foreign fighters, ovvero i radicalizzati
I foreign fighters, cioè i “combattenti stranieri” che decidono di affiliarsi allo Stato islamico: «Il processo di radicalizzazione di chi parte da Occidente – spiega De Rosa – prevede alcuni passaggi psicosociali molto tipici, e un complesso meccanismo d’interazione tra chi progressivamente non si riconosce più nei valori del suo mondo e i reclutatori, che identificano i bisogni di chi si avvicina all’islamismo radicale e facilitano il percorso verso le terre del Siraq (Stato islamico). In questo caso, la follia non va considerata tra le prime ragioni che spingono a partire. E, secondo alcune interpretazioni del fenomeno, i reclutatori potrebbero svolgere una sorta di lavoro di “screening” che li porta a selezionare alcune persone piuttosto che altre. È possibile che queste figure chiave dissuadano chi viene percepito come estremamente instabile, inaffidabile e imprevedibile (che sono, in realtà, luoghi comuni errati sulla follia). Tra le motivazioni che spingono a partire ci sono frustrazione, rabbia, ricerca di significato esistenziale, desiderio di rivalsa, fascino per la guerra o interesse per la sessualità predatoria – continua lo psichiatra – non parlerei, quindi, di ragioni religiose in senso stretto. Anzi, molto spesso la religione è una scusa, non causa di radicalizzazione. Le scelte dei foreign fighters, peraltro, raramente sono sottese da cause economiche o politiche. In genere, si tratta di ragazzi appartenenti a un buon livello sociale e che usano con disinvoltura il Web».

Lupi solitari
Per quanto riguarda i cosiddetti lupi solitari, oggi il concetto va rivisto alla luce dell’esistenza del Web, perché non sono mai davvero “solitari”. «Quella passata è stata l’estate dei lupi solitari. Si tratta di persone – commenta lo psichiatra – spesso suggestionabili in cui il meccanismo psicologico dell’emulazione e della ricerca di gloria e notorietà si mescola a storie personali di sofferenza e di disagio accomunate da un basso livello di autostima. Il meccanismo di pensiero, in questi casi, solitamente è: meglio essere ricordato come l’autore di una strage che non essere nessuno. Nel loro caso, la psicopatologia gioca un ruolo sicuramente più importante. Il rischio, però, è la generalizzazione, e invece è molto importante capire le singole storie di vita: il ragazzo di Rouen ha problemi diversi da quelli del profugo siriano che si fa saltare in aria ad Ansbach o da quelli degli autori delle stragi di Nizza e Orlando, che hanno profili di personalità tra di loro molto compatibili. In questi casi è possibile, anzi necessario, considerare il disturbo o il disagio psichico tra gli aspetti principali che hanno spinto alle operazioni del terrore. Nel caso del Bataclan, di Dacca o di Kabul, invece, dove non agiscono lupi solitari, la follia conta davvero molto meno»

Suicide bombers
Al momento, è difficile poter avere un quadro chiaro del fenomeno dei suicide bombers tra i militanti dell’Isis. Anche nel loro caso, comunque, è raro il riscontro di una psicopatologia secondo i criteri del DSM (il manuale diagnostico e statistico dei disturbi mentali). E nella maggior parte degli studi che hanno indagato il fenomeno tra i kamikaze palestinesi, non emergono tassi di malattia mentale differenti tra chi si fa saltare in aria e chi invece no. Certamente ci sono elementi che accomunano i suicide bombers: in genere provengono dal ceto medio, hanno frequentato una scuola superiore, sono spesso celibi. Insomma, anche in questo caso, nessuna storia di emarginazione o di povertà sociali. E quindi, cosa li spinge ad affrontare la morte? «Un ruolo importante è giocato dalla pressione fatta dalla microsocietà in cui vivono i futuri suicide bombers che più spesso sono giovani, quindi con mancanza di status sociale e con poche responsabilità, talvolta senza una percezione chiara del significato della morte. Altre ragioni possono essere insuccessi personali, bassa autostima, sentimenti di rabbia e odio. Tipicamente, questi ragazzi – spiega lo psichiatra – sono accompagnati da chi li prepara lungo un percorso in cui vengono ridotte le pulsioni di sopravvivenza fino all’anestesia delle emozioni, in cui si crea discontinuità con il passato e ci si isola fino alla perdita della propria storia personale. Ma nel caso dell’Isis, assistiamo all’uso dei suicide bombers prevalentemente per vantaggi tattici. Le famiglie, a differenza di quanto è accaduto con i martiri palestinesi, oggi non comprendono il gesto dei propri figli. Lo sfruttamento della tattica è utile a ridurre la fuga di notizie e a ottimizzare i vantaggi mediatici che derivano dalla spettacolarizzazione delle morti».

Solidità e liquidità
Nel caso del ragazzo che sceglie la via della radicalizzazione siamo di fronte a un disagio esistenziale che nasce dal mancato riconoscimento del mondo in cui vive: il reclutatore riesce a fare un lavoro che conduce il giovane a rileggere tutte le istituzioni sotto una luce diversa, facendogli fare un percorso che lo porterà alla conversione. 

«La nostra società sottopone tutti a cambiamenti rapidissimi – continua lo psichiatra – e non lascia il tempo di adattarsi psicologicamente a questi cambiamenti con altrettanta rapidità. In questo ritardo si crea lo spazio per il disagio e per le nuove forme di sofferenza psicologica che colpiscono soprattutto i giovani. Ci troviamo dentro una modernità liquida in cui le istituzioni classiche sono diventate molto deboli: scuola, famiglia, ecc. Di fronte a questa liquidità, un sistema come l’Isis, che afferma “cosa è giusto e cosa è sbagliato” e che si propone come in grado di fornire granitiche certezze, diventa molto attraente per chi ha bisogno di riferimenti». 

Il ruolo delle donne
Molte sono le donne disposte a combattere per la causa dell’Isis. Oltre ad essere mogli e madri, devono sostenere i mujaheddin e garantire il consolidamento della società. Sono loro che hanno il ruolo di educare i futuri jihadisti con fiabe e giochi che hanno a che fare con la guerra, a loro insegnano a leggere utilizzando un’applicazione per computer dove a ogni lettera è associata un’arma. Sono le donne che possono avere ruoli anche molto violenti all’interno della società come quelle che da alcuni anni hanno formato nella zona di Raqqa una brigata chiamata Al-Khansa, che vigila sulle altre donne con torture e abusi. «Il ruolo delle donne all’interno dei sistemi criminali sta diventando sempre più complesso e non c’è da meravigliarsi se l’Isis utilizza le ragazze per azioni di polizia o di  propaganda. Anche in Italia – osserva De Rosa – assistiamo a una modernizzazione del ruolo femminile nei circuiti criminali. Le donne di mafia e di camorra, per esempio, hanno compiti sempre più centrali all’interno dei clan: spacciano, riscuotono il pizzo, sparano, controllano il territorio».

Centri di deradicalizzazione: l’esempio di alcuni Paesi europei
In Gran Bretagna, in Francia e in Germania sono nati dei centri di prevenzione e aiuto per quei giovani che mostrano la volontà di fare un percorso di deradicalizzazione. Una forma di prevenzione che si basa su gruppi di ascolto. Alcuni di questi interventi in Francia comportano un coinvolgimento importante delle famiglie, prevedono un lavoro sull’ansia e una ridefinizione cognitiva dei ragazzi per riattivare i processi psicologici. «Stiamo assistendo a percorsi di reintegrazione che danno risultati positivi – osserva lo psichiatra – ma, soprattutto quando gli interventi si focalizzano sui problemi di salute mentale dei radicalizzati, è importante considerare che percorsi di cura validati per altre problematiche potrebbero non essere efficaci. Il problema, quindi, è quello di ridurre il rischio di applicare protocolli di intervento a fenomeni che non sono trattabili come malattie mentali comunemente intese.» 

Cosa Nostra e Isis: somiglianze e differenze 
Al centro di diversi dibattiti sui media il paragone tra la struttura della Mafia e quella dell’Isis. Anche se può sembrare azzardato accostarle, in realtà ci sono somiglianze e differenze tra i due sistemi dal punto di vista psicologico. Sono entrambi due totalitarismi che si propongono come un’identità solida rispetto alla liquidità della nostra società contemporanea. Altro elemento in comune sono le attività a cui sono dediti: contrabbando, pizzo, estorsione, traffico di armi, sequestro di opere d’arte, sequestri di persone. Sono differenti dal punto di vista psicologico: il mafioso non prova odio come il jihadista, perché per lui è importante ottimizzare i profitti. «Mafia e terrorismo, anche in Italia, hanno storicamente fatto affari e oggi sempre più spesso questi due mondi vengono messi a confronto. Chi entra nell’universo mafioso o in quello dell’Isis accetta acriticamente alcune regole, vive in un sistema in cui le persone sono totalmente sottomesse – conclude De Rosa – dove l’essere umano si identifica esclusivamente nella sua dimensione di fedele o di affiliato, in cui “l’Io” del singolo si annulla nel “Noi” del gruppo. Dove qualsiasi possibilità di libero pensiero è annichilita e in cui si diventa qualcuno solo per quello che si è e non per quello che si fa. Entrambi i sistemi criminali si territorializzano, espandono la loro economia anche attraverso contatti con i circuiti legali, si propongono come welfare alternativo per le popolazioni a cui si rivolgono. Naturalmente esistono differenze profondissime: al “qui e ora” dei mafiosi si sostituisce la promessa ultraterrena dell’islamismo radicale, alla violenza utilizzata come ultima ratio dei primi si contrappone l’uso ostentato della violenza dei secondi». 

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Essere musulmani: parla l’imam Yahya Pallavicini vicepresidente Coreis (Comunità religiosa islamica italiana)

Come si diventa musulmani? 

L’adesione alla comunità islamica, secondo la tradizione, si manifesta nella pratica dei cinque pilastri del culto, della fede in Dio e della virtù. L’ingresso nella comunità, che avvenga al momento della nascita o in età adulta, è sancita da un rito, la pronuncia della shahada, la testimonianza di fede secondo la quale si attesta che “Non vi è dio se non Iddio e Muhammad è profeta di Dio”. Nel caso di un neonato, la shahada viene sussurrata dal padre all’orecchio del figlio, mentre nel caso di uomini o donne adulte che entrano nell’Islam, sono essi stessi a pronunciarla nella mano di un musulmano adulto e alla presenza di almeno due testimoni che rappresentano la comunità dei credenti. La prassi della Coreis (Comunità religiosa islamica) italiana in questi anni è sempre stata quella di accompagnare l’aspirante con un periodo di formazione che gli permetta di avere una conoscenza di base almeno dei pilastri della fede islamica e permetta anche un momento di riflessione e verifica dell’intenzione. 

È vero che ci si può convertire recitando la shahada davanti ad un musulmano o anche attraverso Twitter o al telefono?
Non riteniamo che tali mezzi virtuali siano idonei a veicolare la concentrazione e la profondità spirituale che auspicabilmente dovrebbe accompagnare un momento così importante.

Chi è l’Imam e qual è il suo ruolo rispetto alla comunità islamica?
L’imam è colui che guida i credenti in un preghiera rituale (salat, secondo pilastro del culto), e la condizione per svolgerne la funzione, oltre al fatto di essere un uomo adulto e sano di mente, sono la pietà, la conoscenza dottrinale e la trasparenza spirituale nei confronti di Dio, unite alla conformità interiore ed esteriore alla tradizione profetica (sunna). Un padre è l’imam nella propria famiglia, mentre i sapienti e i maestri possono svolgere anche funzioni di imam con giurisdizioni più ampie, come per esempio relativamente a un determinato luogo di culto. Non c’è clero nell’Islam e all’uomo che svolge la funzione di imam non è conferita una “ordinazione” come per il clero cristiano, né è richiesta la condizione del celibato.

Lo studio del Corano può essere fatto da soli?
Nella tradizione islamica lo studio e l’approfondimento della Rivelazione coranica non ha un carattere di erudizione, né di approccio individualistico o personale. In 14 secoli di civiltà islamica ci sono sempre state delle scuole sapienziali che avevano e hanno proprio il compito di trasmettere, non solo la lettera della dottrina, ma anche la sua essenza, di verificare che i giovani studenti progrediscano non solo nella recitazione coranica, ma anche nella pratica delle virtù e di vigilare sul mantenimento dell’ortodossia, allontanando ed escludendo interpretazioni arbitrarie ed eterodosse della dottrina. Questo sistema tradizionale di insegnamento e verifica ha subito un duro colpo con i rapidi capovolgimenti della società che ci sono stati soprattutto nel periodo post-coloniale. Quello a cui purtroppo si assiste oggi, con “imam fai da te” che hanno studiato il Corano da soli, senza alcuna verifica e alcun controllo, magari su Internet o come fosse un testo accademico, sono fra le cause della piaga dei predicatori dell’ideologizzazione fondamentalista anti-occidentale, che è un fenomeno socio-politico-culturale, non certo religioso.

Come aiutare l’opinione pubblica a non confondere l’Islam italiano con il terrorismo?
La pratica di un Islam autentico, religioso e non politico, costituisce già di per sé il principale elemento di distinzione rispetto alle strumentalizzazioni e all’ignoranza insite nel fondamentalismo e nel terrorismo. Come Coreis cerchiamo di dare una testimonianza di come si possa essere italiani di fede musulmana che vivono la propria religione in armonia con il resto della società, declinando i principi religiosi nel quadro del contesto sociale, culturale, storico e giuridico italiano, nel quale Dio ha voluto che ci trovassimo a nascere e a vivere. 

Quale l’obiettivo della Coreis?
La Coreis è una comunità religiosa, il primo obiettivo è quello di sostenere i propri aderenti nella pratica religiosa e nell’approfondimento spirituale. Questo avviene anche attraverso l’impegno a dare un contributo positivo, da religiosi, alla società in cui viviamo, occupandoci anche di dialogo interreligioso e formazione e informazione sull’Islam, rivolta sia ai nostri concittadini non musulmani che ai nostri correligionari, in quest’ultimo caso soprattutto con la formazione degli imam. Riguardo a quest’ultimo punto potremmo dire che un obiettivo è quello di formare imam che sappiano tradurre i principi religiosi nella società italiana attuale e guidino le loro comunità a un’integrazione serena e costruttiva, testimoniando come sia possibile essere buoni musulmani, buoni fratelli degli altri credenti e non credenti, e buoni cittadini.

Il ministro dell’Interno Alfano  ha messo in evidenza il fondamentale aiuto delle comunità islamiche e soprattutto degli Imam presenti sul territorio italiano nel segnalare i soggetti potenzialmente pericolosi. Cosa pensa di questa collaborazione? 
Molte comunità islamiche, in Italia e in Europa, collaborano da anni con le istituzioni insieme alle altre comunità minoritarie per una sana e piena integrazione nella società di tutte le componenti religiose, etniche e culturali, con un lavoro paziente e ponendosi obiettivi seri e a lungo termine. Nello specifico, esiste un lavoro costante tra i responsabili delle comunità e i ministri di culto con le forze dell’ordine per la prevenzione dei fenomeni più violenti di odio antireligioso, sia esso perpetrato contro le comunità islamiche o da pseudo-musulmani contro le altre comunità religiose o etniche. Tutto questo lavoro viene completato in un’ottica più ampia grazie all’attenzione posta all’importanza dell’educazione religiosa e scolastica, all’interno delle comunità e nella scuola pubblica. 

Quali sono i segnali che possono portare a segnalare una persona alle forze di polizia?
I segnali che possono far presagire tendenze radicali o peggio intenzioni criminali possono essere molti, anche se nella maggior parte dei casi gli elementi che hanno poi manifestato queste intenzioni si sono dimostrati individui che non frequentavano le comunità, se non saltuariamente, e che hanno sviluppato queste deviazioni tramite altri canali. Individui che tentano di incitare all’odio o reclutare persone nei luoghi di culto, vengono immediatamente segnalati, giacché esiste una naturale attenzione della comunità a identificare questi casi che turbano la normale vita religiosa dei credenti.

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Prima della bomba – Il teatro di Roberto Scarpetti  

Davide, 23 anni, italiano, coperto dal cappuccio della sua felpa è pronto a farsi esplodere all’interno di un vagone della metropolitana. Questa la prima scena di Prima della bomba, (già al teatro India di Roma e prossimamente al Campo teatrale di Milano dal 15 al 19 marzo) un testo intenso che mette in scena il percorso che conduce un ragazzo italiano a convertirsi all’Islam. Attorno a lui, tra i personaggi principali, la madre, insegnante, la fidanzata e gli amici, Ahmed italiano di origine egiziana, Karim italiano convertito e Rafiq, fondamentalista afghano. All’autore, lo sceneggiatore Roberto Scarpetti, abbiamo chiesto di spiegare come è nato il personaggio di Davide e questa storia, estremamente attuale.  
«Io penso che la religione islamica possa offrire a un ragazzo che attraversa una fase depressiva o di disagio interiore un senso di appartenenza, che è l’esigenza avvertita da parte di molti ragazzi occidentali. Noi occidentali viviamo in un mondo  frammentato: abbiamo l’illusione di avere una rete di amicizie, di far parte di qualcosa ma poi alla fine il nostro quotidiano è solitario e individualista. Credo che in molti casi le motivazioni delle conversioni di alcuni giovani vadano cercate non tanto in un percorso religioso quanto nel sentirsi parte di una rete di solidarietà. In Prima della bomba Davide prova una senso di solitudine per un evento traumatico che lo ha toccato da vicino ma non trova conforto e ascolto né tra i suoi amici né con la sua ragazza. In quel momento si rende conto che vive in una società dove non si ha più tempo di ascoltare l’altro. Poi certo la scelta di Davide è estrema. Viene radicalizzato perché incontra un convertito già radicalizzato che lo porta sulla strada dell’integralismo. Quindi la sua non è una scelta autonoma, ma dettata da conoscenze sbagliate.»

Nello spettacolo c’è una scena in cui due personaggi Rafiq e Karim confezionano l’esplosivo che dovrà indossare Davide. La procedura è molto particolareggiata. Si è documentato per questa descrizione? 
Ho fatto ricerche su Internet che mi hanno permesso alla fine di ricostruire il procedimento del confezionamento della bomba fino ad un certo punto. Ovviamente la descrizione che ne faccio nello spettacolo è sintetica. 

In che modo oggi, in una dimensione sociale che spinge a comportamenti sempre più omologati, i giovani possono esprimere il proprio dissenso?
Oggi è molto difficile manifestare un dissenso civile e sociale. La società è profondamente cambiata. Fino a quindici anni fa i movimenti ideologici sono stati una forte spinta al cambiamento, producevano delle idee che erano stimolanti anche per la politica. Attualmente è come se fosse sparita l’idea di un futuro tra i giovani. E per alcuni aderire all’Islam significa protestare contro la civiltà occidentale. 

Nell’era dei social il teatro ha ancora potenzialità espressiva? 
Il nostro tempo è dominato da una comunicazione rapida, veloce, frammentata che lascia la sensazione di vivere ogni momento della realtà ma è un’illusione. Il teatro ha delle grandi possibilità. Dal punto di vista della comunicazione permette allo spettatore di vivere una esperienza reale, che per quanto sia una rappresentazione accade proprio in quel momento. Rispetto al mio spettacolo ho avuto dei riscontri positivi dai giovani: la le scene rapide e veloci sono piaciute perché ricordano il linguaggio a cui sono abituati i ragazzi. 

Pensi che il tuo spettacolo possa essere un esempio di teatro civile? 
In realtà in Italia il teatro civile è qualcosa di diverso. È un genere che propone un evento del passato e ha sempre un narratore- attore che guida il pubblico nell’interpretazione. Penso che il mio teatro sia più politico che civile. 

In Prima della bomba c’è un poliziotto a cui fai dire poche battute, giusto per chiedere i documenti. Cosa pensi della Polizia di Stato?
Penso che abbia un ruolo fondamentale, ma come tutte le istituzioni è fatta di uomini e quindi ha i vizi e i pregi degli esseri umani. 

31/10/2016