Annalisa Bucchieri, Cristina Di Lucente e Valentina Pistillo

Crimine telegenico

CONDIVIDI

Violenza e malavita catturano il pubblico cine-televisivo. Poliziamoderna apre un dibattito sui rischi della rappresentazione del “male”

pp 11-16

“Semo criminali e co’ sta faccia che altro voi esse”? Questa, insieme ad altre, dai numerosi like, è una delle citazioni cult che affollano il profilo Facebook delle Frasi più belle di Romanzo criminale, la fiction sulla storia della Banda della Magliana. La stessa faccia dannata degli attori protagonisti che è raffigurata su magliette, accendini e applicazioni per gli smathphone, ostentati da molti ragazzi. Non meno intensa la diffusione del merchandising della serie tv Gomorra la cui fascinazione sul mondo giovanile non si ferma purtroppo al gadgetma arriva allo scimmiottamento degli atteggiamenti dei protagonisti in un proliferare di atti delinquenziali, come rilevano quotidianamente i poliziotti della questura di Napoli. Gomorra in fondo con il suo successo planetario ha modernizzato l’equazione Italia=Mafia nell’immaginario collettivo mondiale. Sono prodotti filmici così ben confezionati e così ben interpretati che piacciono persino ai criminali veri. Circa un anno fa a Ostia, vicino Roma, alcuni esponenti del clan Spada si sono scattati un selfie con gli ignari Pierfrancesco Favino e Claudio Amendola, bravissimi attori di Suburra, il film ispirato alle vicende di Mafia Capitale. 

Fermo restando l’importanza dei film-inchiesta che mettono a nudo realtà nere, ci siamo posti delle domande all’inizio dei nuovi palinsesti autunnali.Quanto una serie tv, proprio per la sua natura ripetitiva e periodica, può produrre familiarizzazione e affezione ai personaggi criminali? Quanto l’appeal dell’attore rischia di creare involontariamente un mito negativo, tanto che Vinicio Marchioni, oggi a teatro con una rappresentazione raffinata su Dino Campana, ormai non desidera più parlare del suo personaggio in Romanzo criminale? Quanto le abilità narrative di registi e sceneggiatori  rischiano di suggestionare con la spettacolarizzazione del male soprattutto i giovannissimi?

Sicuramente l’epica della violenza ha più forza visiva dell’epica della legalità.  È vero  che produzioni con eroi positivi quali la miniserie Boris Giuliano, Lea, il film sulla Garofalo, la donna che ebbe il coraggio di ribellarsi alla ‘Ndrangheta, Io non mi arrendo, la fiction che ha reso omaggio a Roberto Mancini, il poliziotto che indagò sulla “terra dei fuochi”, per citarne alcuni tra i più recenti, hanno avuto anche un buon seguito e un buon ascolto, ma non hanno prodotto lo stesso fenomeno di fascinazione tra i ragazzi. «I protagonisti di casa nostra sono più simpatici, più vicini a noi», sostiene Matteo, 16 anni, studente romano, fan della fiction sui “maglianesi”. «Forse i personaggi  come Genni Savastano fanno più presa tra noi ragazzi per il loro desiderio di potere e riscatto da una realtà difficile», afferma Gennaro, giovane napoletano trapiantato a Latina, che conserva tutti gli episodi sulle vicende del boss di Scampia . E quando gli si obietta che quelli di Gomorra finiscono tutti ammazzati giovani ribatte: «In fondo meglio vivere poco tempo ma con i soldi , le donne e le macchine sportive che vuoi, piuttosto che vivere a lungo».

Ecco perché Poliziamoderna ha aperto un dibattito sul racconto cine-televisivo del crimine made in Italy, sui suoi pro e sui suoi contro. Abbiamo chiesto una riflessione a coloro che hanno incarnato personaggi cattivi, a chi ha scritto soggetti e sceneggiature di eroi della legalità, a chi compiuto una scelta di mercato ben precisa, finanziando produzioni televisive e cinematografiche su delinquenza e malavita, ma anche a chi ha vissuto sulle proprie spalle la terribile realtà del potere mafioso e si è ribellato, come giornalista e come cittadino.


Gianluca Fabi 
(Responsabile della comunicazione per l’Università Niccolò Cusano)

«È preferibile rappresentare i fatti piuttosto che una realtà cinematografica e televisiva che ci mostri un mondo avulso dal vero – racconta Fabi, tra gli organizzatori del convegno che si è svolto lo scorso luglio presso l’Università telematica sul tema “fiction e legalità” – non è il caso di intervenire con la censura o di colpevolizzare l’arte quando ciò che racconta è reale». Come è stato sottolineato nel dibattito che ha preso in esame la serie Gomorra, nel quale gli studenti hanno recepito appieno il senso dei messaggi veicolati e mostrato consapevolezza nel saper distinguere i generi, c’è stata unanime condivisione tra i relatori sulla necessità di rappresentare personaggi dotati di ambiguità per caratterizzare determinati ambienti. «Analizzando quello che accade in questa fiction, i protagonisti di Gomorra non fanno una vita troppo piacevole, devono continuamente “guardarsi le spalle” – prosegue il giornalista – al di là del lusso, delle macchine vistose e delle belle donne, spesso qualcuno muore ammazzato, questo suggerisce in qualche modo una morale, quella di cercare una strada diversa e più dignitosa». Ci siamo comunque chiesti se il rischio di emulazione vada considerato, soprattutto tenendo conto di un pubblico indifferenziato e non necessariamente dotato di una spiccata capacità d’interpretazione. «Non si può dire che nessuno sia suggestionabile tra gli spettatori, ma non credo si tratti di un effetto diretto – prosegue Fabi – non può essere la visione di un film che porta a commettere un crimine quando non c’è già una spiccata tendenza alla devianza. Il rischio è invece quello di far percepire il crimine come una “carriera” possibile e percorribile. L’auspicio è dunque che il cinema faccia attenzione a mostrare come quella criminale sia una scelta che si paga». Un altro aspetto trattato nel convegno è stata l’insolita assenza di figure positive: i film tendono ad esserne privi, spesso per scelte di regia. «Il messaggio è forse meno facile da decifrare per il pubblico, perché in questo momento prevale un’opinione fortemente scoraggiata e delusa; un personaggio spiccatamente “buono” sarebbe probabilmente poco credibile», ha commentato il giornalista. È quasi inevitabile fare un paragone con le fiction che hanno caratterizzato gli Anni ‘80 e ‘90, i tempi de La piovra: «Allora protagonista era un commissario dalla parte dello Stato che combatteva i criminali, tutto era forse più schematico e semplicistico, ma corrispondeva al modo di pensare di una generazione che credeva di più nello Stato e nella risposta politica, gli eroi rappresentavano la convinzione della gente che ravvisava una protezione nelle forze dell’ordine», conclude Fabi.


Riccardo Tozzi
(Produttore e fondatore di Cattleya) 

La criminalità organizzata fa vendere bene in tv come al cinema. Poliziamoderna ha intervistato Riccardo Tozzi, fondatore di Cattleya dal 1997, l’etichetta cinematografica che, oltre a famose fiction sulla malavita, produce film d’autore e commedie.

Lei ha prodotto serie televisive e film sulla criminalità, una scelta più commerciale rispetto ad altre. Che cosa l’ha spinta a produrre fiction come Romanzo criminale, Gomorra e la nuova serie a puntate di Suburra?
L’idea che il “genere” sia il linguaggio migliore per raccontare il mondo di oggi. Come fece il teatro elisabettiano: Shakespeare sceglie la criminalità del potere come genere per raccontare il mondo del suo tempo. Esagera: tutti ammazzano tutti nelle corti che rappresenta l’autore ma così riesce a raccontare sentimenti universali. Il crime è un grande genere, e noi abbiamo scelto di praticarlo.

Come si comunica correttamente “il male”? Ci sono rischi di travisarlo e di spettacolarizzarlo nelle rappresentazioni?
Sì. È il caso de Il Padrino. Vedendo quel film, tutti vorremmo avere un padre o un nonno come don Corleone. Non è il caso di Gomorra: nessuno vorrebbe fare la vita miserabile e dolorosa dei personaggi di questa serie.

È difficile mantenere l’equilibrio tra politica e cronaca, tra realtà e finzione?
Certo. Noi pensiamo sia giusto basarsi accuratamente su fatti e ambienti reali e poi romanzare. Le storie sono inventate ma il sapore della realtà resta e resta più a lungo.

Perché, secondo lei, i personaggi negativi hanno così successo?
Viviamo nell’epoca dei buoni sentimenti. Tutti vogliamo mostrarci, agli altri e a noi stessi, come persone pacifiche. Ma non è vero. L’aggressività e tutte le altre pulsioni primarie non cambiano, sono sempre quelle proprie della nostra specie animale, che deve il suo successo proprio a una fortissima carica aggressiva. Questi aspetti di noi, che neghiamo, emergono nell’immaginario. Ed è un bene, una fortuna vivere nella prima epoca della storia in cui noi europei non ci scanniamo brutalmente con milioni di morti, e le stragi le vediamo solo sullo schermo. 


Salvatore Esposito
(Attore) 

L’interprete di Genny Savastano nella serie Gomorra è intervenuto nel convegno “Raccontare il crimine, scegliere la legalità” organizzato dall’Università Niccolò Cusano. 

«Tutto deve essere raccontato – esordisce Esposito – in Gomorra viene narrato uno spaccato di realtà mondiale, un sistema criminale che viene ambientato a Napoli ma che poteva trovarsi in qualsiasi altra parte del mondo, è sempre meglio farlo che nascondere tutto sotto il tappetino di casa, come siamo stati abituati negli anni a fare». Per l’attore si tratta soprattutto di un problema culturale: «Anni e anni di televisione hanno propinato prodotti scadenti. Quando poi porti un progetto internazionale dove gli attori interpretano dei personaggi distinti da quella che è la loro natura, allora sconvolgi il pubblico che tende a credere che quelli che stanno vedendo sono il Genny Savastano assassino o il Ciro Di Marzio infame». E prosegue in maniera più esplicita: «Gomorra non nasce per allontanare i giovani dalla Camorra o dalla delinquenza. Nasce con il raccontare che cos’è questo spaccato, dove nessun personaggio fa una bella vita e sono tutti eterni infelici. Spesso il problema reale che porta i ragazzi a scegliere quella strada è la mancanza di alternative: non hanno famiglie, non hanno uno Stato che li supporta», conclude l’attore.


Lirio Abbate
(Giornalista d’inchiesta de L’Espresso)

Il superuomo negativo e invincibile, spesso dallo sguardo ammiccante, viene amplificato dai media che talvolta, consacrandolo, ne sottolineano lo spessore criminale. «Si è parlato più di Suburra e dei suoi protagonisti che del processo a Mafia Capitale», sostiene Lirio Abbate, giornalista sotto scorta de L’Espresso, che ha dato il via all’inchiesta sui nuovi re di Roma. Spettacolarizzare il male, mitizzare un personaggio fa trasparire, agli occhi del pubblico, il boss spietato come l’eroe positivo, piuttosto che la sua reale identità di prevaricatore e assassino. E il criminale diventa una star. «Qual è stata la forza di Carminati? Mediaticamente, il big del “mondo di mezzo” è stato gonfiato molto, come è successo con Totò Riina con Il capo dei Capi. Tutti ne hanno timore, perché se ne parla sempre, troppo, dappertutto. Così come i Casamonica che per il funerale del capoclan hanno scelto la musica de Il padrino. Per loro è stato un salto a livello mediatico: sono stati assimilati a dei veri e propri mafiosi». «Ho letto il libro Suburra e mi è piaciuto – osserva – ma in verità vedendo il film ho provato sentimenti di angoscia vivendo a Roma. Come mai non appare mai la polizia? Forse gli autori hanno voluto evidenziare come il controllo del territorio è in mano a faccendieri senza scrupoli, facendo emergere in alcune scene la pesantezza della situazione. Invece nel nuovo film di Pif In guerra per amore, si parla di mafia ma, per alleggerire l’argomento, il regista fa una ricostruzione in chiave ironica del fenomeno, con lo sbarco degli Americani in Sicilia».

«Le imprese di Roberto Mancini e di Boris Giuliano – spiega Abbate – hanno commosso il pubblico ma purtroppo hanno avuto poco successo: già non se ne parla più. Rappresentare ed esaltare l’orrore patinato, invece, affascina maggiormente, procura ascolti e un notevole ritorno economico, piuttosto che la storia degli investigatori». Esistono poi anche gli eroi quotidiani, protagonisti, loro malgrado, del proprio riscatto. «È il caso di Lo chiamavano Jeeg robot, che mi è piaciuto molto. Un film di denuncia, che fotografa il disagio di alcune periferie della Capitale – continua – In questa “giungla” c’è il supereroe imperfetto che salva il mondo. Istintivamente mi sono schierato con lui, l’eroe positivo, il ladruncolo che diventa paladino della giustizia». Per svilire gli onnipotenti protagonisti del “male” di certe trasposizioni cinematografiche, i media dovrebbero proporre punti di vista alternativi: attraverso la risata, per esempio, si potrebbero insinuare dubbi su alcune verità immodificabili che passano sullo schermo. «Rappresentare il comportamento abietto di alcuni personaggi, la parte degna di commiserazione, che a volte sfiora il grottesco: questa è la chiave per scalfire le mafie», conclude Abbate. Insieme a Pif girano per l’Italia con Furto di cuore e abuso di sorriso, un “talk” teatrale per raccontare in modo irriverente la mafia, attraverso le intercettazioni audio di alcuni boss che sfociano nel ridicolo.
 

Andrea Purgatori
(Giornalista, scrittore e sceneggiatore)

Pensa che cinema e fiction oggi siano in grado di veicolare un messaggio positivo? 
Non credo che debbano avere il compito di educare o di indicare quali siano i valori, bensì di raccontare storie. Non si può pensare che chi immagina e scrive debba trasmettere solo i valori del bene. Il male attrae molto di più, è un dato oggettivo. Penso che al cinema e alla fiction si attribuiscano responsabilità che non hanno, violenza e criminalità ci sono a prescindere. C’è poi un altro discorso: da sempre, e non solo in Italia, i criminali si sono sentiti in qualche modo celebrati nei libri che parlavano di loro, dove si raccontava quello che avevano fatto. 

Quanto deve esserci di reale nella finzione?
La fiction deve essere qualcosa di diverso rispetto alla realtà e a differenza del giornalismo, che deve restare entro i confini dei fatti documentati, si può permettere delle licenze. Mi è capitato di scrivere la storia di Giancarlo Siani, il giornalista ucciso dalla Camorra a Napoli, in Fortapàsc. Non potevamo raccontare il protagonista con le parole e i gesti precisi di Giancarlo. Lo abbiamo reinterpretato, ma l’importante è non aver tradito la rappresentazione di quello che era: un ragazzo come gli altri, non un eroe dichiarato, che purtroppo è stato ucciso dalla Camorra perché faceva bene il suo lavoro. Sia che io debba rappresentare un criminale che un eroe, è quello che cerco di enfatizzare, avendo a disposizione un tempo limitato. 

Essere un giornalista d’inchiesta influenza le sue sceneggiature?
Alcuni spunti sono stati una provocazione utile, magari per riaprire le indagini e per cercare addirittura di spiegare i fatti. In Fortapàsc abbiamo cercato di capire perché Siani sia stato condannato dalla Camorra a giugno e ucciso solo a settembre, un modo che non appartiene alle consuetudini delle organizzazioni criminali o ai killer professionisti. Giancarlo  in realtà non aveva mai smesso di occuparsi del rapporto tra politica, criminalità e mafia e questo ha decretato la sua fine. Nel racconto siamo andati oltre le carte giudiziarie. 

Qual è il ruolo della fiction oggi? 
Penso che la fiction Rai, come nel caso di Guardia Costiera, quando fa questo tipo di servizio pubblico, mette dei soldi per raccontare uomini e vicende che la gente non conosce e secondo me giustifica la sua esistenza, a differenza della televisione commerciale che non ha altri obiettivi se non quello del guadagno, dello share. Si fa invece una cosa del genere e in tutte e due le serate si raggiunge l’indice di ascolti più alto. Anche raccontare il bene premia, funziona. Però siamo sempre al punto di partenza, e cioè che raccontiamo delle storie. Altrimenti faccio un documentario sulla Guardia Costiera

Non si corre mai il rischio di creare antieroi che possano essere mitizzati dai giovani?
Il vero problema non sono certo le fiction sulla Camorra, bensì capire se ci sono le condizioni affinché vengano accolte nel modo giusto. Questo penso debba essere un lavoro che non spetta agli sceneggiatori o ai registi, ma ad altri. Se è vero che ci sono fiction più riuscite o meno riuscite, lo stesso vale anche per i processi, le inchieste e tutti i settori della nostra vita.

 

Pierfrancesco Favino
(Attore) 

Poliziamoderna ha  raggiunto telefonicamente il popolare attore romano che ha interpretato numerosi personaggi legati ai temi della criminalità, dal Libanese in Romanzo criminale di Michele Placido, al politico corrotto Malgradi in Suburra di Stefano Sollima.  

È più facile interpretare un “buono” o un “cattivo”? Trasmettere il bene o il male? 
La difficoltà nell’interpretare un personaggio non dipende da questi fattori. Spesso, peraltro, sono i personaggi cattivi a essere quelli che celano più insidie in quanto più stereotipati.

Un personaggio negativo esercita un fascino maggiore sul pubblico? 
Non credo corretto generalizzare, dunque è una domanda difficile a cui rispondere. Dipende da come è scritto un personaggio, da che tipo di negatività esprime all’interno del racconto. Ci sono poi, è vero, personaggi negativi che diventano delle icone e credo che questo appartenga alla storia del racconto cinematografico. Basti pensare per fare un esempio a Pablo Escobar di Netflix o al Libanese di Romanzo criminale per restare a casa nostra.

Quanto si è ispirato a personaggi reali nell’interpretazione di Filippo Malgradi in Suburra?
Filippo Malgradi è un personaggio che appartiene al vissuto di tutti noi. Filippo Malgradi è entrato in ogni nostra casa attraverso la televisione o rilasciando dichiarazioni ai telegiornali. Per questo motivo era impensabile non avere dei riferimenti precisi a cui ispirarsi. 

Parliamo del celerino esaltato di A.C.A.B. : ha dichiarazioni da rilasciare alla rivista ufficiale della Polizia di Stato? (l’accezione è ironica, ndr)
Innanzitutto A.C.A.B. mi ha dato la possibilità di lavorare insieme a Stefano Sollima con cui ho poi avuto modo di lavorare in Suburra e a cui sono legato da stima e amicizia. In secondo luogo A.C.A.B. è un film laico in ogni senso e che non prende le parti di nessuno, non ha intenzioni moraliste e non agisce in modo retorico sullo spettatore. 
Allo stesso modo io mi astengo dal fornire opinioni in generale, figuriamoci a voi! Dal numero di selfie che mi chiede la polizia fuori dallo stadio però, non vi è così dispiaciuto (ride ndr).


Paolo Borrometi
(Giornalista dell’agenzia di stampa Agi)

Per lo spettatore, il rischio che i meccanismi di proiezione mantengano il loro effetto anche dopo la fine di certi spettacoli esiste veramente, un rischio ribadito anche dallo psichiatra Luigi De Maio che ha sottolineato come i giovani adattano alle proprie necessità le informazioni passive propinate dalle fiction violente, identificandosi con l’eroe di turno. La pensa così anche Paolo Borrometi, il giovane giornalista dell’Agi, che vive sotto scorta, dopo essersi occupato di agromafie in Sicilia e nella terra dei Casalesi: «Il vero problema è lo spirito di emulazione. La televisione crea inevitabilmente dei totem mediatici e i ragazzi, che venerano i loro beniamini, li imitano anche nell’abbigliamento: i miei colleghi ed io abbiamo osteggiato le magliette con le frasi cult della Mafia. Non si capisce quale sia il confine tra il ridicolarizzare e l’inneggiare soggetti con un qualcosa di perversamente eroico. La responsabilità è di ognuno di noi, non solo di chi propone certi spettacoli in tv.  Facciamo tutti un passo indietro, non diamo in pasto all’opinione pubblica ciò che può apparire eccessivamente al confine tra il bene o il male». «Per me un punto di riferimento, la figura da idealizzare è quella di chi non si rassegna al corso degli eventi – sostiene Borrometi – ma cerca di ribellarsi e lo fa con la normalità del proprio impegno: è il caso di donne e uomini delle forze dell’ordine che mettono a repentaglio ogni giorno la propria vita sulle strade». Ma veri eroi sono anche le vittime: «Spesso sonomortificate. Nelle fiction è inevitabile che vi sia una riduzione del loro vissuto di sofferenza perché non fa audience, non interessa a nessuno – spiega –Ne Il capo dei capi non si racconta che Brusca, col suo comportamento abietto,ha sciolto nell’acido il figlio di un pentito. Emerge invece la sua capacità di comando con la falsa dignità che ci viene propinata dallo schermo, al posto del disonore e del sangue versato che c’è dietro. Ma perché non si elogia, per esempio, chi ha combattuto le estorsioni ribellandosi alla Mafia? Le vittime, quindi, continuano ad essere dei bersagli. Non è un caso che i familiari si oppongano alle trasposizioni cinematografiche». Ma esiste una patologia sociale che spinge l’individuo a identificarsi con il  cattivo di turno, come sostiene un attore reso celebre dalla serie Romanzo criminale? «Dobbiamo tendere a migliorare la società, non ad adagiarci sulla convinzione che è “malata” e nulla potrà mai cambiare». Borrometi chiude così, ricordando le parole di Giovanni Falcone: «La Mafia ha avuto un inizio, ma avrà anche una fine. Ciò vale anche per i malanni che ci affliggono. L’affermazione di quell’attore di cui parlavamo prima, vale per giustificare un’ apparizione ordinaria in tv, con un ruolo che è stato riproposto all’altezza di chi doveva ricoprirlo».

31/10/2016