Mauro Valeri

Uniti contro la minaccia

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Intervista a Lamberto Giannini, capo del Servizio centrale antiterrorismo della Direzione centrale della polizia di prevenzione

attualita 10-16

A quindici anni dall’attacco alle Torri gemelle la minaccia terroristica incombe ancora sul mondo. Ma come è cambiata? 
Con l’attacco alle Torri gemelle Al Qaeda ha raggiunto senz’altro lo scopo di far sentire vulnerabili e in pericolo non solo gli Stati Uniti, ma tutto l’Occidente. Negli anni successivi è stata colpita l’Europa, con i sanguinosi attentati in Spagna e Inghilterra. Da allora la minaccia del terrorismo non ci ha mai abbandonato. Certamente si è evoluta – anche tenendo in considerazione i conflitti che si sono registrati in teatri quali l’Afghanistan e I’Iraq, prima, la Siria poi, nonché i cambiamenti geopolitici e la caduta di vari regimi – ma non ha mai cessato di esistere. Ora affrontiamo il cosiddetto Califfato – un’organizzazione terroristica che pretende di farsi Stato ed ha conquistato, approfittando di una situazione di grave crisi e di conflitto, un vasto territorio tra Iraq e Siria – ma non dobbiamo dimenticare che questa formazione non nasce dal nulla ma poggia le sue basi sui gruppi, attivi già nei primi anni 2000, che facevano capo ad Al Zarkawi e ad Al Qaeda in Iraq, salvo poi, per contrasti con il vertice di Al Qaeda, prenderne le distanze. In questo momento quindi non parlerei di cambiamento del tipo di minaccia ma di evoluzione. La pericolosità di Al Qaeda non è diminuita, l’organizzazione è molto attiva soprattutto in Africa, nel Sahel, dove ha una grande forza. Ora ad essa si somma anche quella rappresentata dall’Isis.

Quali sono i canali e le metodologie di reclutamento in Italia?
I canali sono vari così come le casistiche da noi riscontrate nelle operazioni con arresti di “reclutatori”. Quello a cui assistiamo in questo momento, e sul quale lavoriamo molto, è lo sviluppo della propaganda terroristica e, di conseguenza, del reclutamento attraverso il Web. Il fenomeno dei “foreign fighters”, i combattenti all’estero, non è recente. Adesso se ne parla molto, ma noi abbiamo combattenti all’estero già dai tempi della guerra in Afghanistan, di quella in Iraq ma anche di quella della ex Jugoslavia. In Bosnia ad esempio hanno combattuto numerosi volontari nel “Battaglione dei mujahidin”, spesso soggetti radicali, molti dei quali si sono poi trasferiti in Italia e sono stati colpiti da indagini giudiziarie. Quello che però adesso cambia è l’estensione del fenomeno, i numeri. Mentre prima si parlava di poche unità adesso parliamo, in Europa, di migliaia di persone. Ritengo che questa crescita esponenziale sia dovuta al Web che aumenta la potenza della propaganda e le possibilità di reclutamento e radicalizzazione.

Che tipo di persone vengono reclutate?
Stiamo assistendo a radicalizzazioni tanto estreme quanto rapide e in questi casi spesso mancano i presupposti ideologici che avevano caratterizzato in passato i soggetti che maturavano tali scelte anche con studi in “madrasse” o scuole islamiche. Spesso tanto più è rapida questa radicalizzazione tanto più è relativa a soggetti “problematici” con già alle spalle numerosi precedenti penali. Di questo abbiamo avuto prova, non solo nel nostro Paese ma in tutta Europa, anche considerando quanti soggetti si sono radicalizzati in carcere. 

Quale sono le misure messe in campo per fronteggiare il fenomeno terroristico?
Il fenomeno è complesso e non lo si può approcciare come si farebbe con una singola indagine. Più che di misure parlerei quindi di strategia che tocca più aspetti. Due sono quelli fondamentali: quello interno e quello internazionale. Sul piano interno c’è unitarietà di intenti e assenza di rivalità da parte di tutta la “squadra” che si occupa del fenomeno. Si affronta la lotta con la massima collaborazione, punto sul quale siamo tra i Paesi più attrezzati grazie al Casa (Comitato di analisi strategica antiterrorismo) che ci permette di avere un confronto costante e diretto con l’Arma dei Carabinieri, la Guardia di Finanza, il Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria (per i problemi di radicalizzazione nei penitenziari), e con le Agenzie di intelligence. Sul piano internazionale c’è uno scambio di informazioni costante con tutti i Paesi e questo è l’unico modo per stare al passo con la rapidità di movimento delle persone e soprattutto dei messaggi che valicano ogni frontiera grazie al Web. Ultimamente poi è stata istituita in Europa, durante il semestre di presidenza dell’Italia, una rete cui aderiscono 15 Paesi, creata ad hoc solo per fronteggiare il fenomeno dei “foreign fighters”. A qualunque ora del giorno o della notte, ognuno dei Paesi aderenti può, ad esempio, segnalare la partenza o lo spostamento di uno di questi e richiedere un controllo, un pedinamento o qualche altra iniziativa, avendo la certezza di poter interloquire immediatamente con una persona che conosce l’argomento, in grado di valutare e intraprendere immediatamente le iniziative richieste. La nuova legislazione, poi, fornisce validi strumenti e rende il sistema giudiziario italiano certamente all’avanguardia nell’affrontare il fenomeno. 

Voci disperate di mamme che hanno perso i propri figli affascinati e raggirati da una folle ideologia di morte e voci di chi, dopo aver combattuto per l’Isis, ha perso la libertà non potendo tornare più indietro...
Queste testimonianze circolano e si ha forte il sentore dell’impossibilità di uscire dal Daesh una volta che si è dentro. È uno stato assimilabile a quello di schiavitù che comincia con il sequestro del passaporto e che arriva fino all’uccisione dei disertori. Diverse le voci dei “disincantati” come quelle delle ragazzine che, una volta diventate “Spose del Jihad”, si accorgono di essere usate esclusivamente come schiave del sesso. Una delle armi che deve essere utilizzata contro i reclutamenti e le radicalizzazioni è quella della diffusione, soprattutto rivolta ai giovanissimi, di queste storie, nelle scuole, sul Web, sui giornali e in tv. Questo deve essere accompagnato poi da percorsi di “deradicalizzazione” per recuperare i giovani e farli tornare alla vita normale. 

Bambini che uccidono, come in Turchia dove un giovanissimo kamikaze si è fatto esplodere. Abbiamo casi in Italia di reclutati appartenenti a questa fascia di età?
Nei video di propaganda realizzati dallo Stato islamico si vedono soggetti giovanissimi che si esercitano al combattimento e sono protagonisti di esecuzioni. Il messaggio che si vuol far arrivare è un messaggio di forza: stiamo allevando una nuova generazione di combattenti. Spesso sono i padri, come è accaduto recentemente in Iraq, a inculcare nei figli questi insegnamenti. Non risultano casi di bambini reclutati nel nostro Paese ma abbiamo avuto casi di famiglie partite, con i figli al seguito, per dare il proprio contributo alla causa dell’Isis. 

Si sono verificate forme di pentitismo tra i jihadisti?
In passato ci sono state delle forme di collaborazione, non solo in Italia ma anche in altri Paesi. Se però parliamo specificamente di appartenenti al Daesh dobbiamo tener presente che è un fenomeno ancora troppo recente per avere una casistica europea significativa.

Come possono collaborare i cittadini con le forze dell’ordine nella lotta al terrorismo? 
Ci sono dei campanelli di allarme che possono essere indicativi e che possono essere colti sia dagli operatori di polizia presenti sul territorio sia dai soggetti che vengono a conoscenza di realtà e situazioni particolari. Parlo di repentini cambiamenti nel modo di vestire, del diverso approccio manifestato con le donne che dall’oggi al domani diventa di assoluto distacco o di comportamenti manifestati in pubblico o sul luogo di lavoro come l’esultanza alla notizia di attentati. Ma anche le segnalazioni dei centri antiviolenza, dei centri di igiene mentale e delle scuole rivestono una grande importanza. Posso fare un esempio. Ai centri antiviolenza si rivolgono donne maltrattate o “stalkizzate” da compagni o mariti gelosi, possessivi e violenti. In alcuni casi però il maltrattamento potrebbe essere dovuto a una nuova ideologia acquisita dal carnefice o al rifiuto della donna di aderire a nuovi canoni radicali a lei imposti. Ecco, anche questo potrebbe essere un segnale, così come quello di strani discorsi che i bambini ascoltano in famiglia dai genitori e che riportano a scuola. Naturalmente, in questi ultimi casi, trattandosi di minori, va tutto valutato con estrema cautela.

C’è collaborazione da parte delle comunità islamiche italiane con gli investigatori?
Si, il rapporto è costante ed è migliorato rispetto al passato. Certo, come tutte le cose può essere migliorato ancora. Non dimentichiamo che gli elementi radicalizzati costituiscono una minoranza estremamente esigua di tali comunità, mentre, viceversa, gli effetti negativi che derivano dall’azione di questi soggetti si riversano sulla comunità intera. Anche le comunità islamiche devono contribuire a mantenere la sicurezza isolando e segnalando i soggetti estremisti e radicali.

Pensa che quello degli sbarchi migratori sia stato un canale utilizzato dai terroristi per raggiungere le nostre coste? 
Faccio un discorso che parte dalle risultanze investigative. Degli attentati che hanno colpito il nostro continente solo in un caso abbiamo avuto riscontri che indicavano che gli attentatori erano giunti grazie al flusso migratorio: quello degli attacchi in Francia del novembre scorso. Nella circostanza due kamikaze che si sono fatti esplodere nei pressi dello stadio di Parigi erano transitati utilizzando la rotta balcanica. Tutti gli altri protagonisti di quei terribili attacchi risiedevano in Francia o in Belgio. Anche negli altri successivi attacchi gli attentatori erano già presenti sui diversi suoli nazionali. Mi risulta difficile pensare che, una volta che viene preparato e addestrato un terrorista per passare all’azione, poi lo si metta su un barcone dove all’arrivo sarà controllato e schedato. Senza parlare dei rischi che si corrono durante la traversata. Premesso questo, e precisato che va respinta categoricamente l’equazione migrante = terrorista, è chiaro che ci vuole estrema attenzione nei controlli anche perché tra i tanti migranti potrebbe anche esserci qualche terrorista in fuga dopo essere stato operativo in altri teatri e che – anche se non intenzionato nell’immediato a colpire il Paese dove giunge – rimane oggettivamente pericoloso. Ci sono stati infatti diversi arresti che rientrano in quest’ultima casistica, come quello ai danni di un soggetto espulso per terrorismo che tentava di rientrare in Italia o quello di un attivista delle milizie in Siria giunto sulle nostre coste. 

Qual è il rapporto con la nuova Procura antimafia e antiterrorismo?
Il contatto con il procuratore antimafia e antiterrorismo è costante e proficuo. L’istituzione di un organo in grado di dialogare con tutte le procure nazionali, coordinare le attività e sostenerle è certamente un valore aggiunto. È un “punto di raccordo” che permette di avere un quadro di insieme delle iniziative e di collegare tra loro fatti criminosi.

Ha riscontrato contatti tra la criminalità di tipo mafioso e quella terroristica?
Ad oggi, dalle nostre indagini sul terrorismo di matrice jhadista non sono emersi legami, ma, specie per quel che riguarda “affari” come quello del traffico di stupefacenti con cui alcune organizzazioni terroristiche si finanziano è bene mantenere sempre alta l’attenzione.

Nuove tecnologie utilizzate dai terroristi per comunicare. Conta ancora il “fiuto” degli investigatori? 
Il fattore umano rimane quello più importante in ogni indagine perché la tecnologia ti dà delle conoscenze ma fornisce anche una tale mole di dati da lavorare che se fossero tutti analizzati senza creare priorità o selezioni richiederebbero un’infinità di tempo, vanificando il lavoro stesso. E’ grazie al fiuto degli investigatori che invece vengono scelti il target su cui lavorare e i dati di interesse.

Come si finanzia l’Isis?
Quando parliamo dell’Isis va ricordata quella che è la sua peculiarità più importante rispetto alle altre organizzazioni terroristiche: quella della territorialità. Lo Stato islamico ha una sua superficie e su questa vengono estratte e utilizzate risorse energetiche e materie prime. Vi sono poi imposizioni di tasse sulla popolazione, i tanti commerci illeciti, come quello di opere d’arte, e i finanziamenti che giungono da persone facoltose provenienti da diversi Paesi.

Vi sono luoghi che, per quel che rappresentano, sono più soggetti al rischio di attentati o l’unica cosa importante è mietere il maggior numero possibile di vittime? 
I recenti attentati dimostrano che si è cercato di mietere il maggior numero di vittime per seminare il terrore. Va comunque fatto un distinguo tra il “lupo solitario”, che colpisce in maniera autonoma, magari aderendo agli inviti fatti sul Web di attaccare i cosiddetti “crociati” o i “miscredenti”, dal terrorista che invece è inserito in una struttura in grado di pianificare azioni complesse. Nel primo caso sarà certamente più difficile colpire obiettivi presidiati e, probabilmente, si riterrà più remunerativo attaccare soggetti inermi. L’attacco a obiettivi vigilati, di norma, richiede infatti una più elaborata preparazione. La vera criticità però è che comunque, in entrambi i casi, l’attentatore non si preoccupa della propria sorte ma solo di uccidere. Ciò ci lascia solo un campo sul quale giocare, quello della prevenzione. 

27/09/2016