Tiziana Terribile* e Salvatore Tonti**

La criminalità organizzata dalle origini ai giorni nostri

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Sco, vent’anni d’indagini ad alto rischio

La medaglia d’oro alla bandiera della Polizia di Stato quest’anno premia il Servizio centrale operativo (Sco), che in ormai quasi venti anni è diventato il fulcro del coordinamento nazionale e internazionale di tutte le più impegnative indagini di criminalità organizzata e comune portate avanti dalle varie articolazioni territoriali della Polizia di Stato. Lo Sco è nata infatti nel 1989, inquadrato nella Direzione centrale della polizia criminale, come evoluzione del Nucleo centrale anticrimine, fondato nel 1984, e fin da subito ha costituito una solida protezione contro ogni tipo di delinquenza, proprio per le sue caratteristiche peculiari: una struttura agile caratterizzata da strumenti di indagine innovativi, legati, per esempio, alla gestione dei primi collaboratori di giustizia o al contrasto al crimine economico ed informatico. Nel 1998 il Servizio viene rimodulato e, nello stesso tempo, vengono istituite, presso le Squadre mobili, le Sezioni criminalità organizzata. Un modello organizzativo, sorto in origine con particolare riferimento alla lotta alle associazioni di tipo mafioso, che ha incontrato un crescente successo e che ha indotto il legislatore ad allargarne l’orizzonte investigativo in direzione della contrapposizione ad ogni forma di criminalità, fino all’inserimento nel 2005 del Servizio centrale operativo, assieme alla polizia scientifica e al Servizio controllo del territorio, nella Direzione centrale anticrimine, organismo creato nell’ambito del Dipartimento della pubblica sicurezza, con il fine di unificare gli uffici della Polizia di Stato a vocazione investigativa. Oggi lo Sco costituisce lo strumento di vertice nel contrasto ai grandi fenomeni criminali. Il Servizio esercita un ruolo di impulso all’azione di scambio informativo ed operativo con le Squadre mobili presenti in tutto il Paese e realizza un massiccio apporto di risorse umane e tecnologiche agli organismi investigativi dislocati sul territorio, fino a partecipare direttamente alle inchieste più impegnative e delicate, affiancando i propri investigatori a quelli delle Squadre mobili di volta in volta interessate. Così, nel corso degli anni, il Servizio centrale operativo è stato direttamente interessato a tutti i più rilevanti fatti di cronaca. Quali ad esempio, sul fronte della criminalità organizzata, molti sequestri di persona, tra cui i casi di Augusto De Megni, Roberta Ghidini e Giuseppe Soffiantini. Altro campo d’azione per il Servizio, la ricerca e la cattura dei latitanti di assoluta pericolosità, quali Bernardo Provenzano, Benedetto Santapaola, Pietro e Nino Vernengo, Giuseppe Madonia e tanti altri boss, fino a Giuseppe Lucchese, Edoardo Contini e in ultimo Vincenzo Licciardi. Contro il crimine mafioso lo Sco ha portato a termine numerose operazioni che hanno permesso l’arresto di centinaia di mafiosi. Alcune di queste azioni – tra le altre “Pizza connection”, “Iron tower”, “Green ice”, “Old bridge” – sono state realizzate congiuntamente con l’Fbi e la Dea degli Stati Uniti. Le indagini del Servizio centrale operativo hanno poi portato agli autori e ai mandanti dell’omicidio di Francesco Fortugno, presidente del Consiglio regionale della Calabria, con l’arresto di 15 persone. Infine, la criminalità comune. In questo ambito, gli investigatori dello Sco hanno individuato i responsabili dei rapimenti di Patrizia Tacchellla, di Barbara Vergani e del piccolo Tommaso Onofri, hanno posto fine ai delitti seriali di Michele Profeta e Angelo Izzo, e si sono specializzati nella lotta a chi favorisce l’immigrazione clandestina, collegata alla tratta di esseri umani da ridurre in schiavitù, realizzando migliaia di arresti e liberando centinaia di donne costrette a prostituirsi. Nel corso degli anni, i componenti dello Sco sono stati in grado di portare avanti la missione loro assegnata con ininterrotta dedizione: essi, con una costante maturazione della propria esperienza, hanno assicurato alla giustizia i più efferati delinquenti sullo scenario nazionale ed estero e nel tempo, anche sotto la guida di acuti investigatori – e tra questi i capi della Polizia di Stato, prefetti Giovanni De Gennaro e Antonio Manganelli – sono stati raggiunti risultati in ogni settore di intervento. Lo Sco, grazie alla costante capacità di adattamento della propria esperienza ad ogni mutamento di strategia criminale, ha contribuito a mantenere alto il prestigio dell’Amministrazione, concorrendo alla realizzazione di una equilibrata condizione di civile e pacifica convivenza, immune dalle conseguenze dell’azione dei criminali, circostanza fondamentale per garantire la libertà dei cittadini. In questa logica, il Servizio centrale operativo è diventato punto di riferimento per numerose associazioni, agenzie e organizzazioni, che chiedono il continuo e qualificato contributo dei suoi rappresentanti per portare avanti le loro finalità sociali. In questo modo il Servizio è stato chiamato a interessarsi, per la sua riconosciuta professionalità, di minori scomparsi, di recupero di prostitute, di sette sataniche, di “stalking”, di contrasto alle pratiche di mutilazione genitale femminile, di vittime vulnerabili. Per la indiscutibile preparazione dei suoi appartenenti, allo Sco è stata demandata anche l’organizzazione dei percorsi formativi del personale della Polizia di Stato che esplica attività di polizia giudiziaria. Allo stesso modo, gli organismi di Polizia esteri corrispondenti hanno fortemente voluto la collaborazione diretta dello Sco, proprio in ragione dell’acquisita credibilità internazionale, maturata sul campo dai suoi appartenenti. A tal fine, il Servizio centrale operativo scambia i suoi investigatori con gli investigatori dell’Fbi statunitense; nella sede del Servizio è presente un ufficiale di collegamento della polizia francese; di recente sono stati impiegati in Italia poliziotti rumeni nell’ambito del progetto di collaborazione bilaterale che ha portato, a partire dalla fine del 2006, alla positiva conclusione di numerose operazioni e all’arresto di 1.104 persone, di nazionalità rumena, per delitti che rientrano nell’alveo della criminalità diffusa.

(di Francesco Gratteri, direttore della Direzione centrale anticrimine)


1. La mafia siciliana

Per collocare storicamente le origini della mafia siciliana occorre risalire a prima dell’Unità d’Italia quando, in un modello relazionale di tipo feudale, i signori affidavano le proprietà terriere ai gabellotti, amministratori che riscuotevano le gabelle per conto dei padroni, anche con metodi intimidatori e violenti.
All’indomani dell’Unità d’Italia, i gabellotti continuarono ad essere utilizzati dai possidenti, determinati a ricorrere alla protezione dei mafiosi per la presunta incapacità del nuovo Stato nazionale di assicurare l’ordine e la sicurezza.
Il nuovo secolo vide il Fascismo impegnato in una politica di forte repressione del fenomeno mafioso; l’azione del prefetto Cesare Mori, insediatosi a Palermo nell’ottobre 1925, ne fu il simbolo e molti mafiosi furono costretti ad emigrare negli Usa per evitare la cattura.
Il ritorno alla ribalta della mafia coincise con le ultime fasi della seconda guerra mondiale, favorito dall’operato dei boss italo-americani che cooperarono alla realizzazione dello sbarco anglo-americano in Sicilia. Essa colse l’occasione per riacquisire il controllo delle campagne, soffocando ogni tipo di protesta contadina e organizzando una propria presenza politica in Sicilia, attraverso il Movimento indipendentista siciliano (Mis) ed un esercito, l’Evis (Esercito volontario di indipendenza siciliana), nel quale militarono delinquenti e mafiosi, sotto la guida del noto bandito Salvatore Giuliano.
A partire dagli anni Cinquanta la svolta: comparve Cosa nostra e nel febbraio 1958, anche secondo le dichiarazioni di noti pentiti, fu costituita a Palermo una “commissione provinciale” dove confluirono le cosche palermitane ed il potente nucleo corleonese di Luciano Leggio, abile regista di un nuovo corso – condotto sino al suo definitivo arresto, avvenuto a Milano il 16 maggio 1974 – realizzato attraverso intese e patti stretti con capi mafiosi attivi in altre zone del territorio siciliano. Egli diede impulso al contrabbando dei tabacchi, anche in collegamento con cosche calabresi e campane, al narcotraffico internazionale in stretto rapporto con gli Usa ed al riciclaggio del denaro.
La “commissione interprovinciale” o “regionale” di Cosa nostra, costituita nel febbraio 1975, non riuscì a mediare i conflitti che, dopo il 1978, con un apice nel periodo 1981-1984, caratterizzarono la “seconda guerra di mafia”, una campagna di sterminio operata dai Corleonesi nei confronti delle fazioni rivali appartenenti allo schieramento dei gruppi riconducibili ai Bontade, agli Inzerillo ed ai Badalamenti. Forti di una superiore capacità militare essi riuscirono a garantirsi il predominio incontrastato all’interno di Cosa nostra.
Per tutti gli anni Ottanta e nella prima metà degli anni Novanta si verificarono fatti di sangue per il riassetto degli equilibri soprattutto apicali. Contestualmente ebbe inizio la stagione degli omicidi eccellenti, senza pari nella storia di Cosa nostra, e per oltre 20 anni caddero numerosi rappresentanti delle Istituzioni e della società civile per contrastare l’egemonia mafiosa.
Ciononostante, l’azione investigativa di quegli anni ebbe notevole peso: furono disarticolati i collegamenti con i gruppi mafiosi nordamericani, sudamericani ed orientali per la gestione dei grandi traffici internazionali di droga (eroina in particolare) e nel 1984, con l’operazione Pizza connection, fu inferto un duro colpo a Cosa nostra, con la cattura in Spagna del boss Gaetano Badalamenti, il successivo arresto a Palermo e negli Usa di 44 affiliati e l’individuazione delle attività illecite gestite e dei canali di riciclaggio utilizzati.
Iniziò poi la stagione del pentitismo interno a Cosa nostra. L’estradizione dal Brasile, nel luglio 1984, di Tommaso Buscetta segnò l’avvio di un’importante collaborazione con la giustizia che trovò in Giovanni Falcone il suo più eminente protagonista. Esponente dello schieramento perdente nella lotta intestina messa in atto dai Corleonesi, Buscetta svelò la struttura e le funzioni dell’organizzazione mafiosa, antesignano di successive defezioni di altri mafiosi di rango.
Negli anni Novanta, continuando a perseguire l’opera di annientamento degli avversari, Cosa nostra alzò il tiro contro lo Stato, attuando quella che fu definita la “fase stragista” decisa da Salvatore Riina, con delitti ancor più gravi e terroristici.
La forte risposta dello Stato, adottata anche con provvedimenti normativi idonei a dotare gli inquirenti di strumenti più efficaci, consentì l’arresto di Riina (15 gennaio 1993, Palermo), di Leoluca Biagio Bagarella (24 giugno 1995, Palermo) e di Giovanni Brusca (20 maggio 1996, Cannitello - AG), tutte figure di vertice di Cosa nostra. La loro cattura segnò un passaggio di consegne della direzione dell’organizzazione nelle mani del latitante Bernardo Provenzano, con un conseguente cambiamento di strategia rivolto verso una bassa visibilità dell’azione criminale per limitare le iniziative sociali antimafia e, principalmente, fuorviare l’attenzione dello Stato.
Il panorama attuale
Lo scenario mafioso regionale delineato dalle recenti inchieste giudiziarie conferma la centralità della Cosa nostra palermitana nell’imposizione delle strategie operative; fa tuttavia rilevare la sua difficoltà nel garantire la sicurezza dei latitanti e preservare compattezza da nuove defezioni.
L’11 aprile 2006 ha avuto termine la latitanza di Bernardo Provenzano, arrestato dagli investigatori del Servizio centrale operativo e della Squadra mobile di Palermo in contrada Montagna dei cavalli di Corleone (PA): è il punto di partenza di una rinnovata esplorazione delle dinamiche criminali della mafia siciliana, anche attraverso l’analisi del materiale documentale rinvenuto dopo la sua cattura.
I pizzini sequestrati al latitante ribadiscono il carattere verticistico ed unitario di Cosa nostra, almeno per quanto concerne i territori di Palermo, Agrigento e Trapani, fornendo indicazioni sugli interessi illeciti delle famiglie e sul ruolo di Provenzano nelle conseguenti scelte strategiche.
Proprio con i pizzini veicolati attraverso circuiti sicuri, egli aveva rideterminato linee guida e obiettivi delle famiglie, ricompattando le fila della struttura e mantenendo bassa la visibilità, anche imponendo il circoscritto ricorso alla violenza. Aveva sostanzialmente recuperato alcuni “dogmi” della vecchia mafia; il comune interesse per gli affari aveva fatto il resto, inducendo i vertici dell’organizzazione ad accettare il compimento di ogni sforzo per non turbare l’equilibrio raggiunto.
La “restaurazione” operata dal boss corleonese era finalizzata anche a sottrarre Cosa nostra al fenomeno del pentitismo, con un più selettivo e rigoroso criterio di arruolamento dei nuovi affiliati e una più rigida compartimentazione dell’intera associazione. I risultati del pentitismo sono ben chiari agli stessi boss: in una conversazione intercettata nel 2005, noti mafiosi affermavano: «Questo è il periodo più brutto di Cosa nostra, più brutto perché non ci fidiamo l’uno dell’altro, perché… ogni arricogghiuta (leggasi retata) c’è un operaio (leggasi pentito) nuovo».
L’esperienza investigativa conseguente alla cattura di Bernardo Provenzano è di assoluto rilievo; tra le operazioni principali la Gotha, realizzata dalla Squadra mobile di Palermo nel giugno 2006, con il fermo di 52 indagati, considerati ai vertici di Cosa nostra palermitana. Tra loro capi-mandamento e capi-famiglia ritenuti responsabili di associazione mafiosa, estorsione ed altro; vengono svelati i meccanismi di interrelazione e comunicazione tra i più importanti latitanti dell’Isola e Provenzano stesso. Tra i destinatari della misura figurano esponenti di indiscusso spessore criminale, Antonino Rotolo, Antonino Cinà, ex medico di Salvatore Riina, Francesco Bonura e Pierino Di Napoli. A Palermo viene accertata la presenza di due schieramenti in opposizione: uno riconducibile a Salvatore Lo Piccolo (fautore del rientro in Italia degli Inzerillo, riparati negli Usa durante la citata guerra di mafia dei primi anni Ottanta), l’altro ad Antonino Rotolo (contrario al ritorno degli “scappati”). Tra i due gruppi, che riuniscono tutte le famiglie mafiose della città, erano già stati registrati ripetuti segnali di frizione e l’operazione di polizia ha, verosimilmente, impedito il loro degenerare in un conflitto aperto.
Il successo investigativo viene replicato il 5 novembre scorso, quando la Squadra mobile di Palermo trae in arresto, in agro di Montelepre (PA), i ricercati Salvatore Lo Piccolo, di anni 55, il figlio Sandro, di anni 32, Andrea Adamo, di anni 45 e Gaspare Pulizzi, di anni 36: i Lo Piccolo ed Adamo, in particolare, erano inseriti nel Programma speciale di ricerca dei 30 latitanti di massima pericolosità.
Anche in questa occasione il contenuto dei pizzini rinvenuti nel loro covo è prezioso. In essi sono affrontate tutte le tematiche concernenti la vitalità di Cosa nostra palermitana del dopo Provenzano: la gestione delle attività illecite, in particolare le estorsioni, la regolamentazione dei rapporti tra le varie componenti mafiose del capoluogo e di altre province siciliane, la questione del rientro in Italia degli “scappati”.
In una fase di vera e propria transizione di Cosa nostra, Salvatore Lo Piccolo aveva anche avvertito l’esigenza di suggellare in uno scritto, autentico decalogo, la strutturazione dell’organizzazione, replicando quella impiantata dai suoi predecessori e le ferree regole che ogni “uomo d’onore” deve rispettare. Di assoluta attualità risultano, quindi, gli antichi dettami concernenti la famiglia, il capo-famiglia, il sottocapo, il consigliere, il capo-decina e i soldati e, ancora, il mandamento e la commissione, per ognuno dei quali descrive ruolo e funzioni.
Nel boss Lo Piccolo emerge un duplice aspetto: da un lato il rispetto per la tradizione, con la messa in discussione della “cultura” mafiosa imposta negli ultimi decenni dai Corleonesi; dall’altro la volontà di restituire a Cosa nostra centralità e prestigio, anche in campo internazionale, ripercorrendo il solco già tracciato nel passato, rinnovando vecchi legami, mai interrotti, con gli americani.
I rapporti dei Lo Piccolo con le famiglie mafiose d’oltreoceano sono stati documentati, sia a Palermo che negli Usa, nel corso delle indagini svolte nel tempo dal Servizio centrale operativo e dalla Squadra mobile di Palermo con il Federal bureau of investigation, nell’ambito del Progetto Pantheon. Esse hanno evidenziato i collegamenti strutturali con gli Inzerillo di New York, che rappresentano la Cosa nostra americana; su tale fronte si inserisce l’operazione Old Bridge del 7 febbraio scorso, con la quale sono stati tratti in arresto in Italia e negli Usa 92 soggetti, tra esponenti della famiglia Gambino di New York ed elementi di vertice palermitani.
I successi ottenuti con la disarticolazione dei più alti livelli di Cosa nostra, non devono, comunque, far abbassare i livelli di attenzione, bensì produrre rinnovato slancio nell’azione di contrasto. Si registra ora a Palermo una situazione straordinaria: gli imprenditori estorti denunciano le intimidazioni subite e diverse componenti sociali manifestano apertamente il loro consenso all’operato degli inquirenti, come dimostra l’operazione Addio pizzo, conclusa il 16 gennaio scorso dalla Squadra mobile di Palermo, con l’esecuzione di 38 provvedimenti restrittivi nei confronti di esponenti di spicco della frangia di Cosa nostra facente capo a Salvatore Lo Piccolo, responsabili di numerose estorsioni, attuate anche in forma violenta, in danno di operatori commerciali dei quartieri palermitani di San Lorenzo, Cruillas, Carini e Pagliarelli.
I segnali che provengono dalla società civile fanno pensare che, forse, ci troviamo di fronte ad una svolta nell’azione di contrasto a Cosa nostra, tale da rompere definitivamente il muro del silenzio che per lunghi periodi ha caratterizzato quella realtà.

2. La ‘ndrangheta

L’evoluzione storica
Le origini della ‘Ndrangheta risalgono alla metà dell’Ottocento, in una Calabria economicamente fragile e afflitta dal brigantaggio; è allora che fanno la loro comparsa i primi nuclei di picciotti, in special modo nell’area di Palmi, nella Locride e nella zona di Reggio Calabria.
I caratteri della consorteria vennero delineati già con la sentenza del primo maxi-processo alla picciotteria del 1892: i giudici del tribunale di Palmi (RC) accertarono l’esistenza in Calabria di un’organizzazione criminale ove i rapporti interni erano regolati da una serie di prescrizioni assimilabili ad un codice; ne descrissero la struttura organizzativa in singole cellule operative, individuando le funzioni svolte al suo interno dai vari soggetti; distinsero i ruoli dei picciotti.
La ’ndrina costituiva l’unità di base, territorialmente delimitata (in un comune o in un quartiere cittadino), contraddistinta da un forte senso di appartenenza per ius sanguinis. Non era esclusa l’aggregazione di altre famiglie spesso imparentate a quella del capobastone. Come sempre, i matrimoni rinsaldavano i rapporti.
Il locale rappresentava il collegamento fra ‘ndrine della stessa zona: era costituito da un capo, da un contabile (una sorta di ministro delle Finanze) e da un crimine (una specie di ministro della Guerra), in grado di intervenire in occasione di faide tra gruppi familiari.
Tra gli anni Cinquanta e Sessanta le ’ndrine si dimostrarono in grado di realizzare un’efficiente rete estorsiva e di infiltrare gli appalti statali. Fra tutte, tre famiglie del reggino furono in grado di determinare le sorti della ‘Ndrangheta dell’epoca: i Piromalli della Piana di Gioia Tauro, i Tripodo a Reggio Calabria e i Macrì nella Locride.
A cavallo degli anni Sessanta e Settanta, una nuova generazione criminale decise di eliminare i vertici della vecchia ‘Ndrangheta. Il 20 gennaio 1975, con l’omicidio del settantunenne don Antonio Macrì a Siderno, scoppiò la prima guerra di ‘Ndrangheta, con circa 300 vittime. In palio c’erano la gestione di nuove attività illecite ritenute più redditizie, quale il traffico di sostanze stupefacenti su scala internazionale.
Dopo il conflitto si definirono nuovi equilibri, sia a Reggio Calabria, ove la famiglia dei De Stefano sostituì al potere quella dei Tripodo, sia nella Locride, ove quella dei Morabito soppiantò il clan dei Macrì. La nuova dirigenza, denominata Santa, durerà per circa un ventennio, sino alle ultime modificazioni organizzative della fine degli anni Novanta.
La strategia economica perseguita era semplice ed utilitaristica: i proventi dei sequestri di persona venivano riciclati nel narcotraffico internazionale, grazie anche ai canali aperti con le filiali d’oltreoceano (in specie Canada e Australia) ed ai contatti instaurati con fornitori di droga sudamericani e mediorientali.
Divenne, poi, sempre più sentita l’esigenza di convertire i guadagni illeciti in attività legali, per inserirsi nella società civile. Questo il contesto in cui alla fine degli anni Settanta iniziarono ad essere segnalate interrelazioni tra la nuova ‘Ndrangheta e la massoneria deviata.
La realizzazione di alcune grandi opere nella regione entrò, peraltro, nel mirino degli interessi criminali della ‘Ndrangheta. Tra queste il centro siderurgico di Gioia Tauro (RC), l’autostrada A3 Salerno-Reggio Calabria, la megacentrale a carbone dell’Enel nella piana gioiese, il raddoppio della linea ferroviaria di Melito di Porto Salvo (RC), i porti di Tropea e Gioia Tauro.
Dal 1985 al 1991 la provincia di Reggio Calabria visse la seconda guerra di ‘Ndrangheta, che provocò circa 700 morti. La successiva pax mafiosa tra i De Stefano e gli Imerti non fece registrare segni di crisi o disgregazione interna, bensì di riorganizzazione. Perseguendo una precisa strategia, la ‘Ndrangheta tornò ad essere invisibile per poter continuare a gestire “affari”.
L’operazione Armonia, del marzo 2000, contro esponenti di spicco della ‘Ndrangheta reggina, confermò il riassetto dei vertici dell’organizzazione mafiosa e la suddivisione geografica del territorio provinciale in tre macroaree definite mandamenti: tirrenico, comprensivo della Piana di Gioia Tauro, ionico, corrispondente alla Locride, e di centro, ricadente nel capoluogo reggino.
Il panorama attuale
La ‘Ndrangheta si è insediata e replicata nella strutturazione orizzontale che la contraddistingue anche in altre regioni, soprattutto del Nord Italia industrializzato; in particolare, nella realtà di Milano e della Lombardia, ove le indagini svolte dalla fine degli anni Ottanta hanno accertato, rispetto ad altri sodalizi mafiosi, una posizione dominante.
Tale forte espansione ultraregionale è stata realizzata grazie a “cellule operative”, costituite sia sul territorio nazionale che all’estero (Germania, Paesi Bassi, Francia, Spagna, Gran Bretagna, Canada, Stati Uniti d’America, Colombia, Argentina, Brasile, Venezuela, Australia), collegate alle famiglie d’origine. Fuori dalle aree di provenienza la struttura criminale si avvale della collaborazione di organizzazioni di appoggio cui demanda ruoli secondari.
Nel traffico internazionale di stupefacenti il coinvolgimento della ‘Ndrangheta è ormai consolidato; vengono costantemente documentati approvvigionamenti diretti dal Sud America e dal Medio Oriente, grazie alla costituzione di “cartelli”, spesso trasversali agli stessi schieramenti criminali tradizionali.
Anche in tale scenario essa conserva la struttura del modello organizzativo originario, sua caratteristica ed essenza che ne consente sviluppo, durata e presenza in più realtà continentali, con l’acquisizione di una posizione di primazia, in special modo nel traffico della cocaina, tale da consentire, anche, copertura e supporto logistico ai latitanti.
Pur nel profilo di modernità non sembra, tuttavia, appartenere al passato la tradizione dei riti iniziatici di affiliazione e di passaggio di grado, che risultano tuttora indispensabili per definire appartenenza e gerarchie interne e per rafforzare il senso di identità e riconoscibilità, anche in contesti internazionali.
Coniugando il rispetto delle antiche tradizioni e la vocazione al network relazionale, la ‘Ndrangheta è in grado di manifestarsi anche oltre i confini nazionali, con azioni eclatanti. Con la strage di Duisburg (Germania) si è riproposto il problema della sua estrema offensività.
La città di San Luca (RC), da anni insanguinata dalla faida tra le famiglie Vottari-Pelle-Romeo e Nirta-Strangio, costituisce l’epicentro del gravissimo fatto di sangue avvenuto nella cittadina tedesca il 15 agosto scorso, ove sono stati assassinati 6 esponenti delle famiglie Vottari-Pelle-Romeo.
Immediata è stata la risposta delle Istituzioni: il 30 agosto 2007 investigatori del Servizio centrale operativo e della Squadra mobile di Reggio Calabria hanno eseguito un provvedimento di fermo nei confronti di 32 esponenti delle cosche di San Luca (RC), arginando la possibile progressione di sangue.
Lo scorso 18 dicembre, poi, gli stessi Uffici, in collaborazione con il collaterale organo di polizia tedesco, hanno eseguito, in Italia e in Germania, un’ordinanza di custodia cautelare in carcere nei confronti di 5 sanlucoti. Tra i destinatari del provvedimento anche Giovanni Strangio, ancora latitante, ritenuto uno degli esecutori materiali della strage di Duisburg.
Gli investigatori sono ancora impegnati, sia sul versante tedesco che su quello nazionale, nelle indagini sulla cosca dei Nirta-Strangio e nelle ricerche di Giovanni Strangio, inserito nel Programma speciale di ricerca dei 30 soggetti di massima pericolosità.
La vocazione imprenditoriale delle cosche continua a manifestare la propria essenza seguendo diversi step; mantiene la pressione estorsiva ed usuraria in pregiudizio di commercianti ed imprenditori; tenta l’infiltrazione dei settori produttivi e dei diversi rami dell’apparato pubblico, penetrando, talvolta, anche il fronte politico-amministrativo.

3. La Camorra

L’evoluzione storica
A Napoli, già dal Cinquecento, si costituirono più sette criminali dalle diverse denominazioni, identificate dal termine generico Camorra, usato nel linguaggio gergale.
Una delle più conosciute, nata nei primi decenni dell’Ottocento, era la Bella società riformata, fondata sulla segretezza, anche all’interno, su dimensione cittadina, con struttura e rituali di affiliazione utilizzati sino a dopo l’Unità d’Italia.
Essa controllava le bische e imponeva tangenti su ogni forma di commercio.
Come avviene nei nostri giorni, agli affiliati in stato di detenzione l’organizzazione elargiva quote delle tangenti riscosse in città; in cambio i detenuti si impegnavano ad uccidere quei compagni di prigionia che, prima dell’arresto o durante gli interrogatori della polizia, si fossero rivelati delatori.
Nell’ultimo decennio dell’Ottocento, nelle sedi istituzionali, si cominciò a parlare di connivenze tra alcuni settori degli apparati burocratici e politici e la Camorra partenopea.
All’inizio del nuovo secolo, il processo “Cuocolo” vide sul banco degli imputati l’intero stato maggiore della Bella società riformata, accusato di un grave fatto di sangue, e ne ricostruì le regole e l’organigramma. Per legitima suspicione il processo fu celebrato a Viterbo e, l’8 luglio 1912, fu emessa la sentenza di condanna per mandanti ed esecutori.
Terminò così la storia della setta camorristica che aveva taglieggiato un’intera città per decenni.
Sul finire della seconda guerra mondiale, si ricrearono le condizioni perché si potesse riaffermare, in zone limitate della città, il potere dei guappi di quartiere, che cercarono di moltiplicare le occasioni di guadagno illegale soprattutto attraverso il controllo del contrabbando.
Il fattore nuovo fu il legame con i capimafia, grossi trafficanti di droga, espulsi dagli Stati Uniti ed inviati a Napoli. In particolare Lucky Luciano e Vito Genovese, suo successore al vertice della mafia americana, che erano riusciti rispettivamente a favorire lo sbarco alleato in Sicilia e a sostenere sia il governo fascista che quello di liberazione.
Negli anni Sessanta Napoli divenne il punto di transito delle sigarette di contrabbando e, in prospettiva, il possibile snodo del traffico degli stupefacenti da organizzare su larga scala. La Camorra, frammentata in piccoli gruppi guidati da guappi, fu sopraffatta dalla presenza dominante dei mafiosi siciliani, inviati in Campania in regime di soggiorno obbligato.
Solo alcuni camorristi ebbero la forza di interloquire in maniera paritaria con i nuovi detentori del potere malavitoso: tra questi, l’emergente Michele Zaza.
Paradossalmente, la presenza mafiosa siciliana a Napoli consentì la nascita di una nuova organizzazione camorristica che ebbe i suoi principali canali di arricchimento nel contrabbando: emersero i fratelli D’Amico ai Quartieri spagnoli, Umberto Ammaturo a Santa Lucia e si rafforzarono i Giuliano a Forcella. Il trait d’union fu il siciliano Gerlando Alberti che, collegato al potente capomafia di Cosa nostra Luciano Leggio, ebbe il suo principale alleato napoletano proprio in Michele Zaza. L’arresto di Alberti, agli inizi degli anni Settanta, diede il via alla guerra della Camorra contro i Marsigliesi, sopraffatti nel 1974.
Intanto, si avvertivano segnali di profondi cambiamenti e trasformazioni nella Camorra, ad opera principalmente di Raffaele Cutolo, il primo capace di parlare di nuovo faccia a faccia con mafiosi e boss americani e di liberarsi dalla dipendenza dalla mafia siciliana, reclamando il primato campano sul contrabbando.
Cutolo fondò la Nuova Camorra organizzata (Nco) nel carcere di Poggioreale, il 24 ottobre 1970, diventando l’unico referente per le mafie americana e siciliana e per la ‘Ndrangheta.
L’espansione della Nco, dal contrabbando di sigarette al traffico internazionale di droga, dalle estorsioni agli appalti del post terremoto, cominciò ad infastidire le famiglie della vecchia Camorra, che videro diminuire i loro introiti per lo spostamento delle rotte dei traffici illeciti. Esse, quindi, decisero di sfruttare gli antichi collegamenti con i mafiosi siciliani per distruggere Cutolo e la sua organizzazione.
Scoppiò, così, una cruenta guerra di Camorra che determinò, nel 1978, la nascita del “cartello” della Nuova famiglia, promosso dai Giuliano di Forcella, i Vollaro di Portici (NA) e Michele Zaza, con l’intesa che fosse un’alleanza temporanea tra le famiglie camorristiche tradizionali, volta solo a combattere Cutolo. Ad essi si unirono Umberto Ammaturo (con Pupetta Maresca ed i loro seguaci), il gruppo di Antonio Bardellino in provincia di Caserta, Lorenzo Nuvoletta di Marano (NA), Carmine Alfieri e, nel 1981, i Misso del quartiere Sanità.
Per anni si dovette assistere ad un’escalation di omicidi che raggiunsero numeri considerevoli nei primi anni Ottanta; agguati veloci, su auto o moto, a colpi di mitra, pistola o fucile a pallettoni, talora con modalità spietate ed atroci, usate per vendetta, anche con vittime giovanissime. Cutolo, sebbene detenuto, non esitò ad ordinare omicidi, e non mancarono le risposte.
I cutoliani erano in numero maggiore, ma la Nuova famiglia era militarmente meglio organizzata e poteva contare sull’appoggio della mafia siciliana.
A partire dal 1982 cominciò il declino di Cutolo e si delineò l’ascesa di Carmine Alfieri. Il processo a carico della Nco inflisse il colpo di grazia: quasi 400 imputati del maxi-blitz del giugno 1983 ebbero condanne definitive, decine di assolti da sentenze giudiziarie dello stesso processo furono uccisi al loro ritorno in libertà. Unica superstite rimase Rosetta Cutolo, sorella di Raffaele, arrestata ad Ottaviano solo l’8 febbraio 1993, a 57 anni.
Una nuova situazione si presentò inevitabilmente anche in provincia di Caserta dopo la sconfitta di Cutolo: venendo meno un clan egemone ramificato in tutta la Campania, esplose la conflittualità tra gruppi localmente attivi; l’episodio più importante fu la scomparsa di Antonio Bardellino, probabilmente ucciso in Brasile nel maggio del 1988, dopo un incontro con il suo braccio destro Mario Iovine, cui seguì l’assassinio del luogotenente e nipote Paride Salzillo.
Ciò segnò una rottura all’interno della federazione dei Casalesi, tradizionalmente egemone a Casal di Principe e fin dagli anni Settanta preminente nell’intero casertano; la faida interna indebolì l’intero cartello criminale a vantaggio di Mario Iovine, che godeva dell’appoggio di Francesco Schiavone (detto Sandokan), quest’ultimo poi divenuto capo clan, coadiuvato da Francesco Bidognetti.
Dagli inizi degli anni Novanta si riproposero ciclicamente diverse guerre di Camorra, a seguito delle quali, nel 1992, Carmine Alfieri ed il suo luogotenente Mario Fabbrocino tentarono di costituire la Nuova mafia campana, per dare all’organizzazione una struttura verticistica: l’impresa fallì in breve tempo.
Da quel momento in poi la Camorra non ha più abbandonato le proprie peculiarità pulviscolari, continuando ad esprimere violente e spregiudicate metodologie operative.
Diverse le forme di aggregazione che hanno ricalcato lo schema della Nuova famiglia: a Napoli, il cartello dell’Alleanza di Secondigliano nella zona nord, i gruppi flegrei (Puccinelli, D’Ausilio, Beneduce, Lago) nella zona ovest, le famiglie di Ponticelli e San Giovanni (capeggiate dai Sarno e dai Mazzarella) nella zona est; a Caserta, il cartello dei Casalesi.
L’azione della Camorra cominciò ad incidere fortemente sulla tenuta della sicurezza pubblica, soprattutto a Napoli, da anni scossa da centinaia di agguati mortali.

Il panorama attuale
Ancora oggi la criminalità organizzata camorrista conferma l’accentuata polverizzazione sul territorio; i gruppi sono composti anche da affiliati che alimentano il bacino della microcriminalità.
Persiste la tendenza delle organizzazioni numericamente più consistenti a federarsi tra loro, riservando a sé la gestione delle attività illecite più complesse e remunerative.
Ne sono esempio l’Alleanza di Secondigliano, formatasi a seguito di un accordo tra le famiglie più influenti operanti nell’area centro nord della città di Napoli (Licciardi, Mallardo, Contini) e la contrapposta confederazione dei Misso-Pirozzi-Mazzarella-Sarno, con il quartier generale nel rione Sanità, nel cuore di Napoli.
Analogo assetto organizzativo è espresso, nel casertano, dal clan dei Casalesi, costituito da schieramenti riconducibili, in generale, a Francesco Schiavone, detto Sandokan, e a Francesco Bidognetti, detto Cicciotto ‘e mezzanotte, entrambi da tempo detenuti in regime speciale.
Sempre attuali i tentativi dei clan più potenti di infiltrarsi nella pubblica amministrazione, ad ogni livello.
La spiccata vocazione transnazionale dei clan campani è favorita dalla capacità delle organizzazioni più radicate di relazionarsi con le consorterie italiane e straniere, soprattutto nel traffico internazionale di stupefacenti.
Sempre nel profilo internazionale, deve aggiungersi l’attitudine delle organizzazioni camorriste verso la costituzione di reticoli per la produzione e la commercializzazione di prodotti contraffatti, di ogni genere e specie, utili al reimpiego, in particolare nei Paesi dell’Est europeo, dei capitali illeciti in attività commerciali esercitate da soggetti contigui ai clan.
In tale contesto, l’azione congiunta del Servizio centrale operativo e della Squadra mobile di Napoli ha portato alla cattura di importanti latitanti. In particolare, il 7 febbraio scorso è stato catturato Vincenzo Licciardi, di 43 anni, al vertice dell’omonimo clan di Secondigliano, ricercato dal 2004 per associazione mafiosa ed altri gravi reati; il 14 dicembre, in un appartamento di Casavatore (NA), è stato tratto in arresto Edoardo Contini, di 53 anni, capo indiscusso dell’omonimo clan e massimo esponente della direzione strategica dell’Alleanza di Secondigliano, entrambi inseriti nell’elenco dei 30 ricercati di massima pericolosità.

4. La criminalità mafiosa pugliese

L’evoluzione storica
Diverso percorso ha vissuto la Puglia che, nel tempo, non è stata interessata da forme di criminalità definibili mafiose e solo negli anni Settanta e Ottanta le nuove dinamiche socio-economiche che interessarono le province pugliesi prepararono un terreno fertile affinché queste potessero attecchire.
In quel periodo, infatti, la regione iniziò a risentire delle diverse spinte criminogene, in parte provocate dalla presenza di molti mafiosi, soprattutto siciliani, in soggiorno obbligato, mentre nelle carceri pugliesi furono trasferiti affiliati alla Nuova camorra organizzata di Raffaele Cutolo.
La Camorra instaurò, così, una solida relazione con i contrabbandieri pugliesi che fornivano la manovalanza (scafisti e scaricatori) per i trasbordi delle casse di sigarette dalle “navi-emporio” che stazionavano al margine delle acque territoriali italiane ovvero direttamente dalle coste albanesi.
Nonostante la collaborazione con la Nco alcuni boss pugliesi, con l’intento di affrancarsi dalla Camorra, avviarono relazioni con esponenti di rilievo della ‘Ndrangheta, dei quali si assicurarono l’appoggio.
Presero, così, vita due organizzazioni mafiose con le caratteristiche dei sodalizi calabresi e siciliani: nel Salento la Sacra corona unita (Scu), un’aggregazione di gruppi criminali fondata in carcere nel 1983 da Giuseppe Rogoli; a Bari, con la “benedizione” di quest’ultimo, presumibilmente nel 1987, il sodalizio La Rosa che, sotto il controllo del clan Romano di Acquaviva delle Fonti (BA), mantenne rapporti con i siciliani Fidanzati per il commercio della cocaina.
La Scu era strutturata in modo piramidale, con Giuseppe Rogoli al vertice, con uno statuto che disciplinava i vari aspetti della consorteria (riti di affiliazione, ruoli dei diversi affiliati, regole di comportamento e principi ispiratori). Essa raggruppava diversi clan, ognuno con autonomia di azione nell’area di influenza, con obbligo di rispettare gli interessi comuni.
Ai traffici di droga e di armi, al contrabbando di sigarette ed al riciclaggio di denaro, si aggiunsero le estorsioni, le rapine, l’usura, il favoreggiamento della prostituzione, il caporalato, la gestione del gioco d’azzardo clandestino, le frodi agricole ai danni dell’Unione europea e dell’Aima.
Nelle province di Lecce e Brindisi nel 1989 scoppiò una guerra di mafia che durò sino al 1991, provocata da un contrasto interno alla Scu, tra Giuseppe Rogoli ed un elemento di spicco, Antonio Antonica, che aveva tentato di prevalere nella gestione dei traffici illegali delle estorsioni e della prostituzione.
Il carattere mafioso della Scu fu riconosciuto nelle aule giudiziarie nel 1990 dalla Corte d’appello di Lecce che condannò il Rogoli e numerosi suoi affiliati. La Puglia venne così inserita tra le regioni caratterizzate da fenomenologia mafiosa.
Nel 1992 e nel 1993, la lotta al fenomeno mafioso pugliese fece registrare momenti di assoluta rilevanza, con la disarticolazione delle cosche più agguerrite del nord leccese e del tarantino, con la cattura di alcuni latitanti ed il ritrovamento di alcuni depositi di armi dell’organizzazione.
Nel 1998, Pasimeni, D’Amico e Vitale, affiliati alla Scu, esautorarono il Rogoli e fondarono la Sacra corona libera (Scl). La nuova organizzazione mafiosa – cui aderì anche il boss dei boss del contrabbando, Francesco Prudentino – acquisì saldamente il dominio in provincia di Brindisi ed in parte di quella di Taranto, nonostante i duri colpi inferti dall’azione di contrasto.
Il passaggio al nuovo millennio segnò la fine della Scl, grazie all’azione delle forze di polizia che, nel 2000, operarono una serie di catture eccellenti, tra cui quella del citato Prudentino, inserito nell’elenco dei 30 ricercati di massima pericolosità, arrestato dagli investigatori del Servizio centrale operativo in Grecia.
Ciò nonostante, nel 2002 Massimo Pasimeni riannodò le fila dell’associazione ed assieme al fratello Giuseppe, a Carlo Gagliardi ed a Francesco Campana, riorganizzò la Nuova sacra corona libera (Nscl). Ancora una volta questo tentativo di riorganizzazione fallì in seguito all’azione di contrasto delle forze di polizia.
In definitiva, la criminalità mafiosa pugliese si è identificata essenzialmente in quella espressa dalla Scu e dalle sue dinamiche evolutive.
La storia della criminalità mafiosa barese seguì, per altro verso, un percorso non omogeneo, polverizzato fra una pluralità di gruppi che non ebbero mai progettualità di cartello, per cui si identificò con le vicende dei singoli sodalizi e delle loro lotte per la conquista della supremazia su territori ben delimitati.
Le consorterie foggiane ebbero una genesi diversa, attraverso la formazione mafiosa denominata Società, costituita dalle cosiddette batterie.
Dagli anni Ottanta ad oggi, la criminalità organizzata foggiana, ufficialmente riconosciuta nel gotha criminale grazie all’intermediazione di Franco Coco Trovato, esponente storico della ‘Ndrangheta, è stata interessata da cicliche, cruente conflittualità tra gruppi avversi.

Il panorama attuale
La criminalità pugliese è oggi connotata dalla presenza di una pluralità di consorterie dotate di spiccata capacità di adattamento e da una particolare vocazione affaristica.
Tali peculiarità comportano una situazione in evoluzione continua, caratterizzata dall’accentuata frammentazione dei gruppi criminali e dalla mancanza di un vertice comune ed aggregante, anche per l’assenza di capi carismatici.
Tale stato, col progressivo indebolimento della Sacra corona unita determinato dalle numerose inchieste giudiziarie, spesso arricchite dalle dichiarazioni collaborative di esponenti di rilievo, è oramai vigente da tempo e, per ora, non risultano segnali relativi alla presenza di aggregazioni criminali strutturate e durature.
I sodalizi pugliesi, versatili e flessibili verso “affari” sempre diversi, continuano a prediligere, sfruttando il rilevante ritorno economico, i traffici di stupefacenti, ricercando all’occorrenza sempre nuovi interlocutori, anche di matrice straniera. Nel panorama criminale della regione, infatti, non va sottovalutata la presenza delle aggregazioni di origine albanese e cinese.
Tra le attività illecite di maggior interesse mantiene un ruolo di primaria importanza quella estorsiva ed il correlato fenomeno usurario. I sodalizi più articolati tendono ad infiltrarsi nella cosa pubblica per realizzare profitti indebiti.

*Primo dirigente della Polizia di Stato
Direttore Divisione analisi del Servizio centrale operativo


**Vice questore aggiunto della Polizia di Stato
Capo della II sezione della Divisione analisi

Approfondimenti

Il servizio Centrale Operativo
Le infiltrazioni nel settore dei giochi e delle scommesse
La tutela dei minori

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01/05/2008