a cura di Cristiano Morabito

#questononèamore

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L’impegno della Polizia di Stato contro stalking e violenze

inserto 12-16

All’inizio avevo paura, ero pietrificata; continuavo a pensare che non avrei potuto vivere senza di te al mio fianco, ma poi ho passato così tante notti pensando a quanto ti eri comportato male con me. E sono cresciuta forte, ho imparato ad andare avanti”.

Sembrerebbe uno stralcio di uno dei tanti racconti che si sentono spesso fatti da donne che hanno avuto accanto un uomo che pensavano di amare e invece si rivela come il peggiore dei mostri. No, non è un racconto, ma sono i versi di una canzone degli Anni ’70, una di quelle sulle cui note ci si scatenava sorridenti in discoteca, magari mimandone il testo, ma senza saperne il vero significato. Lei era Gloria Gaynor che, già allora, con la sua I will survive (Io sopravvivrò) denunciava pubblicamente gli abusi subiti da un uomo, lanciando un grido di dolore e di speranza a tutte le donne che si trovavano nella sua stessa situazione, dicendo che se ne può uscire trovando la forza in se stesse, anche per ricominciare da capo.

Dunque, erano gli Anni ’70, la condizione della donna si avviava a cambiare, gli strascichi del ’68 e del femminismo iniziavano a cambiare la concezione della donna solamente madre, tutta casa, chiesa e figli: l’altra metà del cielo cercava di trovare una propria indipendenza in tutti i campi.

Da allora di acqua sotto i ponti ne è passata veramente tanta, ma le donne, sebbene oggi si siano inserite in ogni ambito della società e a ogni livello, continuano per certi versi a essere viste come il “sesso debole” e, purtroppo, a subire quelle stesse violenze alle quali erano sottoposte decenni fa. Chi può dimenticare il padre-padrone Nino Manfredi di Brutti, sporchi e cattivi che inquadrava una famiglia di immigrati dal Sud alla periferia romana del dopoguerra? Una concezione della famiglia che, seppur modificatasi nei decenni, in molti ambiti culturali resta sempre purtroppo attuale. Ma non è solo l’ambito familiare quello nel quale alcune donne, ancora oggi, subiscono le prevaricazioni, a volte violente, del proprio uomo. Ci sono fidanzati, amanti, ex, ma anche perfetti sconosciuti capaci di arrivare a uccidere pur di conservare lo status quo di un amore che spesso sfocia nell’ossessione. 

Sono stati coniati tanti termini per definire questi comportamenti, dallo stalking al femminicidio, e il moltiplicarsi dei media ha fatto sì che emergessero ancora di più, sebbene fossero presenti nella nostra società fin da quando esiste l’uomo sulla terra.

Un’attenzione particolare, dunque, che ha consentito a questi fenomeni di assurgere all’onore delle cronache, anzi, purtroppo, quasi sempre all’onore della cronaca nera. E sono i numeri a dirlo. Nei primi 8 mesi del 2016 i femminicidi sono stati ben 76; la buona notizia, sebbene nella tragedia, è che rispetto allo stesso periodo dell’anno passato si registra un calo di quasi il 23%. Però il dato su cui ragionare più profondamente è quello fornito dall’Eures, secondo il quale nell’ultimo decennio le donne uccise in Italia sono state complessivamente 1.740, di cui 846 all’interno della coppia e 224 morte per mano di un ex. Quindi, femminicidi “di coppia”, con oltre il 40% di moventi legati alla sfera passionale e più del 21% che hanno come origine liti e dissapori.

E la sensazione, purtroppo, ascoltando i telegiornali che quotidianamente riferiscono notizie del genere, è che si tratti di un fenomeno arginabile, ma non del tutto arrestabile, proprio perché, come si diceva, insito nella natura dell’essere umano.

Un fenomeno, dunque, talmente ampio e “odioso” per l’opinione pubblica, che non poteva non essere oggetto di analisi per la Polizia di Stato che, da qualche anno, è scesa in campo per combattere quella che viene definita come la “violenza di genere”, con iniziative concrete per correre in aiuto delle donne che hanno subito il “non amore” da parte del proprio uomo. È il caso della campagna “Questo non è amore” e del “Progetto camper”, messi in campo dalla Direzione centrale anticrimine, diretta dal prefetto Vittorio Rizzi, all’interno della quale è incardinata la Divisione analisi del Servizio centrale operativo, con a capo il primo dirigente Mariacarla Bocchino, divenuta ormai punto di riferimento per la materia: «Si tratta di gente insospettabile che compie atti del genere, anzi “normale”, verrebbe da dire. In realtà parliamo di una fenomenologia che non è un evento criminale da aggredire con gli strumenti del “contrasto all’estraneo”, in realtà alberga in ciascuna casa e, potenzialmente, in ciascuno di noi, che potrebbe essere un latente abusante del soggetto sul quale riversa in modo giusto, ingiusto, veramente o falsamente, delle “aspettative affettive” ossessive. Ed è proprio l’ossessione a produrre questo tipo di reazioni estreme». 

Esistono dei profili di presunti autori, basati sull’esperienza vissuta. Sicuramente ci sono anche delle metodiche scientifiche che gli esperti mettono a punto e che permettono di intercettare o, comunque, di catalogare. Non è un discorso di tipo lombrosiano, ma è effettivamente lo studio delle dinamiche psicologiche nelle relazioni interpersonali, in particolar modo di quelle di coppia. Ma il discorso può essere allargato anche alle relazioni affettivo-amicali, quelle familiari o che comunque comportano affettività, dove la modalità di porsi, di gestire, di condurre avanti la relazione, ovviamente aiutato dalle circostanze di ambiente, soggettive, di tempo (come un momento temporale difficile della vita di ciascuno), può, una volta incasellato e studiato nei minimi particolari, rivelare delle “spie” di pericolo, se non il pericolo vero e proprio. «Pericolo “esistente” – prosegue la dirigente – perché ci sono già dei dati effettivi che possono assolutamente dimostrare che il prossimo passo sarà lesivo. Il caso di Lucia Annibali (vedi intervista a pag. VI) è assolutamente sintomatico: una “goccia quotidiana” che va avanti, di cui spesso il soggetto che ne rimane vittima non si accorge perché coinvolto. La prende come un’attenzione, oppure la giustifica nell’ambito di un rapporto o, ancora, ha paura oppure pensa che possa provare a cambiarlo e che spetti a lei farlo o che lui prima o poi cambierà. Giustificazioni del tipo: “No, è colpa mia perché forse ho fatto, ho agito così, ho aperto la porta in quel modo…”; e spesso si arriva all’imponderabile». 

Lo “zoccolo duro” di questo fenomeno vecchio come il mondo, ma con delle differenze: il mondo di ieri era un mondo a famiglie molto allargate, dove questi problemi, se c’erano, venivano innanzitutto mediati da una serie di persone del nucleo familiare e, dunque, arrivavano “depotenziati”; le vittime non reagivano, perché la vittima donna era “abituata”. Non dimentichiamoci che fino al 1996 la violenza sessuale, nel codice penale, era inserita tra i delitti alla libertà morale: in pratica un “fatto d’onore”. 

Un diverso impatto mediatico
«Nel momento in cui in Italia censiamo con un atto legislativo un cambiamento, è vero che quella normazione dovrà essere digerita, ma è già il segno che qualcosa nella società e nella sua cultura è cambiato – dice la Bocchino – Da quel momento arriva il battage mediatico. Ed è proprio questo l’aspetto che ci fa sembrare il fenomeno come enormemente aumentato. Lo è anche perché emerge sui giornali e nelle trasmissioni tv, poiché c’è una copertura che lo fa uscire fuori senza doversi sentir dire, a chi porta il problema, “tornatene a casa e cerca di risolverlo da sola”. Emerge anche perché, soprattutto nelle nuove generazioni, è cambiata la cultura anche nell’informazione. E questo vuol dire tanto. 

Cambia il sentire, in positivo e in negativo, anche grazie alla contaminazione di altre culture. In negativo, forse poco, ma siamo pressati anche da esigenze internazionali molto forti su questo argomento, ma chi la esercita non è comunque immune dal problema, perché insito nella natura dell’essere umano e della relazione uomo-donna. Ecco perché diciamo che non pensiamo di abbattere il problema, perché sono reazioni istintive che nascono da un retroterra culturale, informativo, educativo che porta verso quella deriva. Non potrà essere debellato, perché gli esperti dell’animo umano dicono che non è possibile, ma intaccarlo fortemente sì. Le leve su cui si dovrà agire e si dovrà continuare a farlo, sono un’informazione corretta, educazione delle famiglie, soprattutto per i più piccoli, vere e proprie “spugne” nell’apprendimento, che rischiano di acquisire per buoni e normali certi comportamenti visti tra le mura domestiche. Ciò non significa mettere in discussione unità familiare o affettività, basta farlo con i toni giusti e soprattutto spiegarlo ai bambini senza bugie. Quello che abbiamo è un problema educativo forte. Educare le famiglie è difficile, ma provare a farlo con i bambini attraverso le scuole è possibile, perché già nelle scuole si manifestano le problematiche. Nelle materne e nei nidi si tende a ricreare una sorta di ambito-nucleo familiare che imita quello di provenienza. Se ci affidiamo a quel che dicono gli esperti ci sono molti segnali di istintiva aggressività non verbale ma fisica, che è la modalità con cui il bambino si esprime, ripetendo quel che vede in casa».  

Succede più spesso tra moglie e marito o tra amanti, fidanzati, ecc.?
La maggior parte delle azioni intrusive, ossessive, maltrattanti, sono quelle che avvengono in ambito familiare: partner ed ex partner. «E sono anche le più pericolose! – interviene Mariacarla Bocchino – soprattutto l’“ex”, che è disposto anche ad annullare fisicamente la controparte. Il reato base nelle famiglie è quello del maltrattamento, che può avvenire anche attraverso comportamenti persecutori, non solo fisici e psicologici, ma anche economici: ad esempio, il dover chiedere sempre denaro per condurre la famiglia, quasi come se non fosse un qualcosa di normale, risulta essere una dipendenza totale dall’altro. Spesso, pur di non sentirsi umiliate di continuo, si arriva a chiedere soldi in prestito ad altri pur di non chiederli al partner. Il fenomeno è vecchio. Prima era messo sotto la campana di vetro di una grande famiglia, di una infinita capacità di resistenza da parte delle donne che erano “educate” a fare questo. Il mondo doveva andare così, perché il maschio era dominante. Oggi non è che la cultura sia cambiata molto ma, più che l’emancipazione femminile anche a livello lavorativo, quel che più ha inciso forse è stata l’informazione. 

Un omicidio come tutti gli altri?
Il femminicidio non è un omicidio come tutti gli altri. «Il movente messo sotto una lente d’ingrandimento merita un’attenzione particolare non a livello tanto di pena, perché per un omicidio più dell’ergastolo non si può dare, ma per gli eventuali altri provvedimenti da mettere in campo per proteggere i familiari che sopravvivono – continua Mariacarla Bocchino – Mentre per i figli è automatico che ci si attenda che uno Stato risarcisca un danno (non solo economico, ma che si prenda anche carico dei figli in caso di uccisione brutale da parte di un genitore), quando invece rimane la famiglia senza ascendenti, a quella famiglia bisogna restituire un senso di giustizia che vada oltre il carcere a vita per il colpevole. Un risarcimento che potrebbe essere anche di tipo morale».

Il ruolo della prevenzione
«Non andrebbe fatta da istituzioni come la Polizia di Stato, che solitamente intervengono quando ormai la “patologia” si è già manifestata e, quindi, purtroppo spesso troppo tardi: o si è già verificato un evento tragico, oppure l’evento si è già verificato e si viene liquidati con la classica frase “Non è successo nulla, solo una discussione. Tutto a posto. Fatevi gli affari vostri” – prosegue la dirigente – In quest’ultimo caso potrei pensare di aver fallito l’intervento, ma potrei anche ipotizzare che quella chiamata non fosse falsa e cercare di focalizzare un po’ lo stato dell’arte dei luoghi per vedere se ci sono tracce di litigi o quant’altro. Se sono sfortunato, la lite è finita male. Le forze di polizia possono intervenire con anticipo sui fatti solo quando è la vittima che viene a denunciare qualcosa». 

«Noi su questo argomento non possiamo fare prevenzione nel vero e proprio senso della parola, possiamo andare nelle scuole, soprattutto primarie, perché diventa educazione affettiva che comporta relazioni più sane. Un lavoro che fatto a quell’età ha il vantaggio di non essere influenzato ancora dalle differenze di sesso. Così si sfatano tutti i miti culturali che ci portiamo dietro da secoli, come quello della superiorità dell’uomo sulla donna. Si ripristina la centralità dell’importanza di una relazione sentimentale seria, dove non si usano le mani né si è violenti con le parole. Sui più piccoli la gestione dell’attività deve essere concreta e massiva, in questa direzione il poliziotto diventa una figura di riferimento che può essere d’ausilio, insieme a mamma e papà, agli insegnanti anche per segnalare cose che non comprendono».

Formare chi accoglie le vittime
«Attualmente a livello centrale abbiamo creato ed esportato sul territorio, una rete di informazione, conoscitiva e di esperti, sugli uffici competenti delle questure (Squadre mobili, Divisioni anticrimine, Uffici minori) con la mission di “fare formazione a tappeto”. Nelle questure e presso i commissariati ci sono dei referenti per la violenza di genere, interlocutori ai quali vengono portate tutte le questioni riguardanti questo argomento continua la Bocchino – Questo è quel che stiamo facendo alla luce di un’esperienza più che decennale, anche di formazione e di disseminazione di criteri di valutazione del rischio che bisogna conoscere: ad esempio delle parole “chiave” dette dall’interlocutore che possono far “accendere la lampadina” facendo capire che non si tratta di una situazione blanda, ma potenzialmente pericolosa. Dalla legge antistalking a oggi come Polizia di Stato abbiamo istituito cicli addestrativi con funzionari e dirigenti degli uffici interessati perché si facessero formatori in zona e organizzassero il modello operativo, fatto di una serie di step e di conoscenze che nel tempo sono aumentate, come le tipologie di stalker e di approccio alla vittima. La formazione deve essere continua, perché la professionalità si gioca su questo. E non deve essere continua solo nei capisaldi, ma anche sul territorio; ad esempio le Volanti e i commissariati sono vere e proprie “antenne” della situazione». 

Il “Progetto Camper”
“Il progetto Camper” nasce per fornire informazioni certe ai cittadini e a tastare il polso del fenomeno sul campo – spiega la dottoressa Bocchino – L’obiettivo è quello di intercettare un’utenza, italiana o straniera, femminile e anche maschile, per lanciare anche il messaggio che non si tratta di un problema solo femminile, ma che continuerà ad esserci finché le donne dovranno risolverselo da sole; infatti, uno dei motivi principali per cui spesso non si trova una soluzione, è che la donna pensa “posso risolvermelo da me”. Approcciare il maschio, quando il fenomeno al 90% ha vittimismo femminile, significa renderlo edotto che può fare molto per evitare queste situazioni. Il camper è servito per capire che tipo di utenza avevamo di fronte, tra questi anche stranieri, ma non i vacanzieri, bensì famiglie di immigrati che vengono da culture in cui la donna non ha nessun titolo per cui parlare e in cui “serve per…”. Provare ad instillare il dubbio in alcune donne che vengono parlando di altri, amici etc, per descrivere la propria esperienza per paura di essere scoperte e poi vedersela tornare in un ufficio di polizia per denunciare finalmente l’uomo che la maltrattava, è un successo. Anche se è una sola!  Vuol dire che quell’informazione ha sortito l’effetto desiderato. Abbiamo lasciato libertà alle questure (in tutto 6 quelle toccate dall’iniziativa nel periodo luglio-settembre 2016, ndr.) nella scelta del personale, chiedendo la presenza fondamentale di una base composta da Squadra mobile (collettore dell’iniziativa), Divisione anticrimine (qualora le situazioni rappresentate possano far sì che il questore eserciti il potere di ammonimento), un medico della polizia, preferibilmente, o specialisti dei centri antiviolenza, psicologi, assistenti sociali e, a volte, anche un legale o personale del 118 (intese con singole Asl). Quindi un approccio “multidisciplinare” dove fondamentale è stato l’apporto dei centri antiviolenza, cui solitamente vengono affidate le persone che la notte vengono denunciano una violenza al commissariato. Fondamentale per il Progetto è stato che la gente chiedesse informazioni, perché l’obiettivo dell’operazione era quello di diffondere informazioni corrette sulla materia». 

Un’iniziativa che, visto l’ottimo riscontro avuto nella prima edizione (vedi tabella a pag. IV) ora è pronta a ripartire, seppur con qualche difficoltà nelle zone colpite dall’ultimo sisma nel Centro Italia: «È stata estesa anche ad altre provincie facendo tesoro di tutte le informazioni acquisite, molte delle quali si sono tramutate nel tempo in denunce per abusi, paragonabili per numero a gocce nell’oceano, ma comunque importantissime. Ora puntiamo sulla comunicazione specialistica, ad iniziare dalle scuole, ma coinvolgeremo anche le università per cercare degli strumenti di ricerca nuovi e specifici per quel territorio. Ci sono tanti dipartimenti, come quello di psicologia o criminologia che hanno in cantiere attività di monitoraggio specifico sulla materia. Anche le università ci aiuteranno a fare informazione corretta. Per le nuove generazioni abbiamo anche ipotizzato un video da mandare nelle discoteche, magari con un testimonial adatto alla fascia d’età che frequenta i locali. Una chiave per far presa su questo pubblico potrebbe essere anche legare la violenza all’uso di sostanze che spesso circolano nei locali. Sono molti i fattori in gioco per questo tipo di iniziativa, che dovrebbe avere soprattutto la disponibilità dei gestori dei locali».

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Rinascere dall’incubo

È il 16 aprile del 2013 e, intorno alle 21.30, Lucia Annibali, 35enne avvocato di Urbino, sta rientrando nella sua casa di Pesaro, ma non riuscirà ad aprire la porta di casa perché sul pianerottolo ad attenderla ci sono due uomini incappucciati, Altistin Prevcetaj e Rubin Talaban, che all’improvviso le gettano dell’acido sul volto e si dileguano. I soccorsi fortunatamente arrivano in tempo per salvarle la vita e per ascoltare lei che, con un flebile filo di voce, indica subito il fidanzato, Luca Varani, un collega, come il certo mandante dell’aggressione. Pochi giorni dopo scattano le manette ai polsi di Varani, che in precedenza aveva già provato a uccidere Lucia manomettendole il tubo del gas della cucina, e dei due albanesi esecutori materiali dell’aggressione. Da allora inizia un lungo calvario per l’avvocatessa marchigiana, fatto di tante dolorose operazioni di chirurgia ricostruttiva e di numerose udienze durante le quali ha voluto sempre guardare in faccia i propri carnefici, senza mai mancare una volta. 

Oggi, almeno dal punto di vista della giustizia, Lucia ha vinto, perché i tre uomini sono stati condannati in via definitiva lo scorso 16 maggio: 20 anni a Varani per tentato omicidio, lesioni gravissime come mandante e per stalking, e 12 anni ai due aggressori materiali.

Ora Lucia Annibali è libera da un “amore” malato e non ha mai smesso di lottare per se stessa e per tutte le donne che, come lei, hanno subito le conseguenze di un rapporto in cui il sentimento era solo una scusa per prevaricazioni, umiliazioni e attenzioni morbose continue, sfociate poi nell’ossessione e nell’odio.

L’abbiamo raggiunta al telefono e lei ci ha raccontato come si rinasce dopo essere stata a un passo dalla morte fisica, ma anche morale.

Il suo è stato un caso emblematico e che ha dimostrato che si può ricominciare.
Il processo è andato bene e, nonostante i tentativi da parte della difesa degli imputati, a volte anche un po’ pittoreschi e fastidiosi, la giustizia ha fatto il suo corso in modo veloce e puntuale. Sono state fondamentali le indagini svolte dalla procura e dal nucleo investigativo dei Carabinieri di Pesaro, che non hanno lasciato nulla al caso. Da avvocato, quando assistevo alle discussioni in aula già dal primo grado, mi rendevo conto che non c’erano buchi e cose lasciate insolute senza essere approfondite. È chiaro che il buon esito dipende anche molto da chi deve giudicare il caso e dal suo approccio. Devo dire che i magistrati oltre a essere stati giusti, hanno saputo restituire un valore, un riconoscimento alla sofferenza di una donna che ha subito quel che ho subito io. Non solo per violenza durante il rapporto, ma anche per la modalità con cui sono stata aggredita, che è stata particolarmente estrema. 

Come si rinasce dopo aver affrontato un’esperienza del genere?
Rifletto spesso su quel che mi è accaduto e su come affrontare la vita quotidiana, perché ogni giorno devo superare prove legate anche alla mia condizione di salute: l’ustione ti accompagna per tutta la vita, nel bene e nel male. Sicuramente è un percorso che va fatto con se stessi, la forza e le motivazioni vanno trovate dentro; così come anche il desiderio di ricostruire la propria persona e il modo in cui si decide di rapportarsi con gli altri. La scelta che si fa di come vivere dopo quel che è successo, è esclusivamente personale. Bisogna farsi forza innanzitutto da soli, perché chi abbiamo intorno sicuramente può essere d’aiuto, ma poi nella vita si è da soli. Anche superare la più piccola difficoltà quotidiana dipende solamente da te. Bisogna costruirsi una forza a dir poco “granitica” che sia quotidiana e che ti accompagni sempre in ogni momento della giornata.

In un’intervista in tv, guardando la fotografia del presidente Napolitano che, in occasione del conferimento della carica di Cavaliere, le bacia la mano, lei ha detto: «Non c’è immagine migliore per chi voleva annientarmi». Che cosa porta una donna a subire certi comportamenti da parte di un uomo che, alla fine, è risultato non essere chi si sperava che fosse?
Per quella che è stata la mia esperienza, credo che forse ci sia una sorta di fragilità interiore, dei vuoti, dei buchi da riempire; una personalità ancora da costruire completamente. Sono proprio questi vuoti lasciati in sospeso a rendere più vulnerabili, a farti diventare una “facile preda” di fronte a soggetti che, apparentemente, possono sembrare più forti dal punto di vista psicologico. 

Si spera fino alla fine che sia amore…
Ritengo che una donna sia sempre mossa da buone intenzioni nei confronti dell’uomo, perché ricordiamoci che è sempre l’uomo che fa del male, non è la donna che è complice. Questo è uno stereotipo che va assolutamente distrutto, perché sennò si finisce con il dare la colpa sempre e solo alla donna. Ci vuole una consapevolezza femminile personale. 

Cosa significa sentirsi prigioniera di un amore malato?
L’acidificazione equivale alla morte di una persona, anche se la lasci in vita perché la sottoponi a una tortura quotidiana. Io, molto semplicemente, penso che i soggetti che riescono ad arrivare a fare tanto male a un essere umano abbiano dentro di sé insita una propensione al male. Non credo ci siano delle patologie particolari, ma penso sia proprio la natura. C’è chi dice che tutti siamo capaci di fare sia del bene che del male, ma io non ne sono così convinta. C’è sempre un limite alla capacità di fare del male. Penso ci sia una vera e propria propensione alla malvagità. È una scelta di vita quella di fare del male a un essere umano. Il male psicologico è altrettanto devastante e distruttivo per l’autostima della persona, per il suo approccio alla vita, ne spegne lentamente la vitalità ed è veramente tanto pesante da gestire, da capire e da provare a superare. Spesso mi hanno posto la banale domanda se non mi fossi accorta di nulla o non avessi capito cosa stessi rischiando. Non è questione di non capire o di sembrare di essere diventata stupida all’improvviso una volta incontrato un certo tipo di uomini; queste sono persone “esperte” nella distruzione psicologica del partner e in questo trovano la loro fonte vitale: distruggere l’altro per sentirsi più forti. Però ho capito che fondamentalmente sono dei deboli.

Essendoci passata, cosa urlerebbe a una donna che pensa stia subendo quel che ha subito lei?
Non urlerei mai, perché non è il mio modo di approcciarmi alle persone. Per come sono fatta, penso che dolcezza e gentilezza siano degli importanti valori aggiunti. A una donna direi di ricostruire, di ricercare la propria autostima e le proprie qualità personali che si perdono, purtroppo, a poco a poco quando si vivono questi rapporti; ci si dimentica del proprio valore e di chi si era prima di incontrare queste persone. È importante lavorare su se stesse e mettersi in discussione di nuovo, cercando di iniziare a pensare che una via d’uscita c’è, perché ce la meritiamo! 

Dopo quel che le è successo, come è cambiato il suo rapporto con gli uomini?
Dal punto di vista sentimentale ancora non ho avuto l’occasione di rimettermi in gioco, anche perché sinceramente sono stata abbastanza presa da altro. Ho comunque stretto amicizia con molti uomini, a partire da quelli che hanno svolto le indagini sul mio caso e dai medici che mi hanno assistita finora. In realtà, ho capito che ci sono uomini risolti nella loro vita e che sanno valorizzare la donna, sia che questa sia un’amica o una compagna. A chi ha subito come me e ne è uscita, o sta provando a farlo, io consiglio di non chiudersi perché la vita è fatta anche di uomini e che non sono tutti così. Ricostruire una certa fiducia nei confronti dell’altro sesso è anche questo un modo per guarire e risanare le proprie ferite. 

Lei ha rivisto il suo ex durante tutte le fasi del processo. È un’esperienza che può aiutare a uscirne? La consiglierebbe?
È una scelta personale. Per me non è stato facile, ma ero assolutamente convinta di volerlo fare e di riuscire a sostenerlo, perché quello che quello che ho subito da un punto di vista medico ti dà l’imprinting per qualsiasi cosa possa capitarti nella vita. Pensavo che fosse importante esserci e mostrare pubblicamente le mie ferite soprattutto a chi doveva giudicare. E questo esserci sempre era parte del mio percorso, di come ho reagito a ciò che mi è successo. Però è anche giusto che chi pensa sia troppo, abbia le possibilità e gli strumenti, che le devono essere garantiti dalla legge, per potersi proteggere; è importante tutelare la propria persona e non fare mai ciò che si pensa possa essere troppo pesante da sopportare e che si possa aggiungere a un trauma già esistente. Dunque, ripeto, deve essere una scelta.

Una donna che ha subito un trauma come il suo, cosa ha bisogno di sentirsi dire quando prende il coraggio a due mani e va a denunciare chi la maltratta?
Innanzitutto ha bisogno di essere ascoltata, capita e mai derisa; già per una donna è molto faticoso e complicato arrivare a compiere un passo del genere e, una volta che decide di farlo, ha bisogno di essere accolta da chi si trova di fronte, che deve prendere sul serio il suo racconto, senza pensare che sia semplicemente una povera isterica. Questo è un grave errore, una sottovalutazione nella quale non bisogna cadere mai. La donna deve sapere che si può fidare del suo interlocutore, ma questa fiducia deve essere costruita da ambo le parti; quindi, ritengo sia fondamentale la formazione per chi opera in questo ambito, come anche la sensibilità. Sottovalutare un momento chiave potrebbe risultare fatale. Bisogna essere coscienti che in quel momento si può avere nelle mani la vita o la morte di un essere umano.

Sarebbe preferibile una donna o un uomo?
C’è chi pensa sia preferibile una donna. Personalmente sono di avviso contrario; sarà per la mia esperienza personale, perché ho conosciuto questi carabinieri che mi hanno aiutata e con cui sono diventata amica: di loro mi fido e da loro mi sento protetta. Rischio di ripetermi, ma accoglienza e comprensione sono fondamentali in questi casi. E bisogna saperle trasmettere. Non dimentichiamoci mai che la donna che arriva alla denuncia è una donna che è distrutta dentro e ha paura perché non sa cosa l’aspetta. 

Come convive con la paura?
Ho ricominciato a lavorare e attualmente collaboro con la ministra Boschi al ministero delle Pari opportunità. Io voglio uscire da quel che mi è successo e non voglio essere una sfregiata a vita. La paura è legata principalmente a ciò che mi è stato fatto, perché una volta che ci si è ustionati si ha paura di qualsiasi cosa possa arrecare di nuovo un danno simile a quello subito, come un fornello o anche il gas, dato che il mio aggressore una prima volta tentò di farmi esplodere con la casa manomettendomi il tubo della cucina. Ma anche la modalità in cui sono stata aggredita, con delle persone che sono entrate in casa, è fonte di paura e devo dire che da allora qualche attenzione in più ce l’ho. 

Cristiano Morabito

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Stalking: l’ombra della paura
di Anna Costanza Baldry

Alessia, 45 anni, separata. Due figlie alle superiori. Lavora come impiegata presso un’azienda privata ed è addetta al settore marketing. È rimasta in buoni rapporti con l’ex marito con il quale riesce a gestire la vita delle figlie. Conosce da due anni Marco, padre di un compagno di scuola della figlia più grande; da qualche anno anche lui si è separato dalla moglie per motivi che Alessia non ha mai saputo. Si vedevano all’uscita o all’entrata della scuola e alle riunioni di classe. Da una simpatia è iniziata una relazione anche se tenuta molto segreta agli occhi di tutti per non turbare i figli. Lo stress per Alessia però diventa eccessivo quando Marco inizia insistentemente a chiederle di andare a casa sua, o fare le vacanze tutti insieme. Alessia vuole lasciare gli ambiti sempre distinti e separati, e poi si è resa conto che il rapporto con Marco è ormai arrivato al capolinea, così lo lascia. Marco sembra comprendere e condividere la scelta, ma nel giro di poco tempo diviene sempre più insistente: la chiama, si fa trovare sotto casa di lei, va al lavoro, le manda messaggi sui social network, le fa recapitare fiori. Un giorno Alessia trova sul parabrezza della macchina un bigliettino, con su scritto: uno dei due è arrivato al capolinea. Spaventatissima, ne parla con un’amica e decide di chiedere aiuto alla polizia. L’ispettore dell’Ufficio per i reati contro i minori e le donne, valutando che Marco è incensurato e occupa una posizione sociale e lavorativa di prestigio e in considerazione che Alessia non vuole imbattersi in un processo penale né tanto meno “‘danneggiare” Marco con una querela, le parla della possibilità di intraprendere l’iter amministrativo con la richiesta di ammonimento; richiesta che viene accolta e firmata dal questore. Alla comunicazione di avvio di procedimento amministrativo a suo carico, nonostante la possibilità di presentare proprie memorie, Marco non lo fa e passato il tempo previsto viene convocato per la notifica del provvedimento. L’ispettore, oltre a fargli firmare il verbale, gli dice chiaramente «Signor Marco, immagini di stare a giocare una partita di calcio. Lei ha fatto delle stupidaggini, forse non se ne è reso conto e non ci vedeva nulla di male con le sue ossessioni e persecuzioni, ma questo è un avvertimento, un cartellino giallo. Stia lontano dalla signora Alessia e non la cerchi più e non si metta più in contatto con lei. Altrimenti rischia, rischia il ‘rosso’ e poi è  peggio,  le indagini, un processo e magari la condanna. Lasci perdere, non ne vale la pena». Marco, senza fare tante domande e apparentemente rassegnato, sparisce. Alessia si sente meglio, anche se in fondo un po’ le dispiace e teme che Marco sia arrabbiato con lei. Ma anche con lei l’ispettore, molto preparato, è stato chiaro: «Non lo contatti, non ceda a sensi di colpa; se lui volesse farsi perdonare e con qualche scusa incontrarla, sia forte, si ricordi di come l’ha fatta stare male. Contatti subito il Centro antiviolenza, chiami il 1522, le daranno una mano per gestire questi momenti. Ma ripeto, non lo incontri e non ci parli». E per un po’… silenzio.  

Poi, dopo circa due mesi, una mattina, Alessia, prima di recarsi al lavoro, trova la sua macchina rigata su tutta la fiancata. La sua è la sola macchina danneggiata, ma si convince che è stato qualcuno che ha parcheggiato male. Per un attimo pensa a Marco, ma poi rimuove subito quel pensiero,  “non ne sarebbe capace”. Cerca di non pensarci e non ne parla con nessuno. Dopo qualche settimana, nel cuore della notte, sente degli squilli sia al cellulare sia sul numero di casa, quando risponde non sente nessuna voce. Pensa a uno scherzo e sottovaluta la vicenda. Si vergogna anche dell’idea di andare dalla polizia con ‘niente’ in mano. Ancora una volta non ci pensa e non ne parla . Accade più volte all’interno della settimana, in giorni diversi, in orari diversi. 

Poi un giorno Alessia incontra Marco per strada, vicino alla scuola. Pensa a una causalità. Lui si mostra molto educato e gentile, anche troppo. Lei dentro di sé percepisce che dietro tutti quei ‘misteri’ c’è la firma di Marco, ma non lo vuole ammettere. Ha paura, e un po’ si vergogna, perché in fondo quella storia non sarebbe mai dovuta iniziare. E tace. La polizia non sa nulla, non risulta alcuna recidiva. Perché Alessia non torna dall’ispettore? Eppure la situazione si sta facendo drammaticamente pericolosa e sottovalutare questo continuo stalkeraggio potrebbe essere molto, molto pericoloso…

Proprio per la sua pericolosità, il fenomeno dello stalking, sia nella sua accezione giuridica sia in quella psicologica e criminologica, richiede molta professionalità da parte di chi se ne occupa. La normativa tanto attesa e arrivata nel 2009 ha dato alla polizia, ma soprattutto alle vittime di questo crimine orrendo risposte concrete e un valido aiuto. Negli anni, la stessa Polizia di Stato ha perfezionato la modalità di gestione di questi reati, sia sul versante amministrativo, quando vi è richiesta di ammonimento, sia di concerto con l’autorità giudiziaria quando l’iter è penale. 

Soprattutto in merito all’ammonimento, i primi tempi sono stati per le varie questure di “rodaggio” anche perché le domande cui far fronte sono tante e complesse: cos’è meglio consigliare a una vittima perseguitata? Fare richiesta di ammonimento o procedere subito ex art. 612bis c.p.? I casi di stalking sono tutti compatibili con la procedura dell’ammonimento? È sempre efficace l’ammonimento per prevenire la recidiva, o lo è solo in alcuni casi? quali? Le vittime cosa si aspettano dalla polizia quando chiedono aiuto perché perseguitate? Sono soddisfatte del modo in cui la polizia si occupa della loro situazione? E ancora, a distanza di oltre 7 anni dall’entrata in vigore della legge 38/2009, cosa sappiamo di più? In che modo la Polizia di Stato ha potuto migliorare la procedura di intervento e di gestione dei casi, e soprattutto cosa fa per aiutare le vittime? Per dare una risposta a queste e ad altre domande, nasce nel 2012 per iniziativa comune del Centro studi Cesvis, Dipartimento di psicologia della Seconda università degli Studi di Napoli e della Direzione centrale anticrimine del ministero dell’Interno il progetto Sascia (Strategie antiStalking: conoscere impatto ammonimento). Un progetto di ricerca e di monitoraggio della cosiddetta legge anti-stalking, e in particolare sui provvedimenti di  ammonimento ex art. 8, al fine di valutare l’efficacia dell’ammonimento stesso e l’operato della polizia. Successivamente, nel 2014, il progetto si è evoluto in Sascia in Action, ancora in corso, che ha come obiettivo conoscere, dando voce alle vittime , che cosa ha implicato l’ammonimento, se cioè è stato, nella loro percezione, utile, e qual è stato l’impatto con gli operatori di polizia. Il progetto nella sua prima parte era “retrospettivo”: cioè la polizia ha chiesto alle vittime che avevano vista accolta la richiesta dell’’ammonimento il consenso a entrare nel monitoraggio e ad essere telefonicamente intervistate dall’equipe di ricerca del Cesvis. In questa prima fase sono state coinvolte 23 questure “sperimentali”, in seguito il progetto è stato esteso agli Uffici anticrimine di tutte le questure d’Italia, per un monitoraggio in itinere. A tutti coloro che fanno richiesta di ammonimento viene spiegato il progetto e richiesto il consenso a fornire i dati a terzi; chi acconsente viene contattato dall’equipe dell’università, per monitorare quello che accade ed è accaduto dalla richiesta ammonimento, senza in alcun modo interferire con il lavoro della polizia. Se richiesto si forniscono informazioni sui centri antiviolenza. 

I risultati derivanti dal progetto Sascia, fornendo indicazioni dirette sull’impatto che la richiesta di  ammonimento ha sulle vittime, rappresenta un utile strumento anche per la Polizia di Stato, per incrementare efficienza ed efficacia della propria azione, anche in relazione alle disposizioni normative italiane e alle varie convenzioni europee, fra cui quella entrata in vigore nel 2014, nota come ‘Convenzione di Istanbul’.  

Questi primi dati che presentiamo fanno riferimento a un totale di 130 donne vittime di stalking da parte dell’ex partner, (che costituiscono l’80% delle richieste di ammonimento monitorate) che hanno preso parto allo studio. Il 96.9% delle intervistate sono italiane, il 3.1% straniere. L’età varia dai 20 ai 73 anni. Per quel che riguarda lo status sociale, il 49.9% delle vittime non è (e non è mai stato) sposato, il 6.9% è coniugato, il 14.6% è legalmente separato e il 29.2% è divorziato, nel 2.3% si tratta di vedove. Gli stalker hanno un’età media di 44 anni (23 il più giovane, 91 il più anziano). 

Con lo strumento Thais - Threat assessment of intimate stalking, viene identificata la tipologia di stalking che ha subito la vittima. Con questa check-list sono state individuate 31 diverse forme di stalking diretto e indiretto (vedere tabella 1). 

Dopo aver raccolto i dati sulle varie forme di stalking, alle vittime è stato richiesto se l’ammonimento secondo loro è stato rispettato, a prescindere dall’avvenuta comunicazione alla polizia di eventuali violazioni. A un anno dall’emissione dell’ammonimento ben il 50.4% delle vittime riferisce di aver subito ancora qualche forma di stalking, percentuale che a distanza di due anni scende al 17.8%. Perché non lo hanno comunicato alla polizia? I dati infatti sulla recidiva del ministero dell’Interno aggiornati al 2013 parlano di efficacia dell’ammonimento molto più alta: intorno al 70-80%. Per paura o perché hanno perso la speranza che le cose possano cambiare; non ne parlano, cercano di non pensarci, temono ripercussioni. Queste le risposte più frequenti. 

La polizia non sentendo più la vittima e non facendo, se non in rarissimi casi, “chiamate di monitoraggio” non sa quel che accade,  meno che sia non sia la vittima a tornare in ufficio per far presente che lo stalker continua nei suoi atteggiamenti persecutori, anche se magari in maniera “più lieve”. 

Ora invece, anche grazie al progetto Sascia, sappiamo qualcosa di più . Il dato raccolto dalle vittime sulla recidiva in presenza di ammonimento non è sempre rassicurante. Quello che comunque è emerso (al di là del dato relativo alla recidiva che richiede riflessioni e affinamenti delle procedure, e forse più formazione vittimocentrica) è che la vittima alla domanda se lo strumento dell’ammonimento e il lavoro fatto dalla polizia in generale sono stati utili ed efficaci, risponde di sì nel 66% dei casi. Questo implica che l’utilità dell’ammonimento viene sì percepita, ma c’è comunque il 34% delle vittime intervistate che ritiene che l’ammonimento non ha risolto del tutto il problema, semmai l’essersi sentita accolta e ascoltata e creduta dalla polizia.

Alle vittime è stato infatti chiesto di indicare come si sono sentite trattate dagli operatori della Polizia di Stato (Tabella 2  e figura 1), i risultati sono molto positivi. Le vittime nel complesso si sono sentite protette, comprese, credute, ascoltate e soddisfatte. Certo c’è ancora tanto da fare, ma sicuramente quello che è stato fatto negli ultimi anni in termini non solo legislativi, ma anche di investimento nella formazione e nella professionalizzazione del personale delle forze di polizia fa comprendere come i risultati ci sono stati e continuano ad esserci, ma non sono sufficienti. Le donne ancora vengono uccise; sempre più quelle che stanno lasciando o hanno lasciato il partner. Una su 3 aveva anche già denunciato o chiesto aiuto. Il 69% subiva già stalking o maltrattanti). Ci vuole, come previsto dall’art. 51 della Convenzione di Istanbul  e dalle indicazioni del piano straordinario nazionale antiviolenza, l’uso della procedura della valutazione del rischio. Adesso il Cesvis sta validando il Sara -Plus/Surplus. Senza una costante attenzione da parte di tutti gli attori coinvolti la violenza maschile continua a rovinare (e a volte a spezzare) la vita di molte, troppe donne e delle persone a lei vicina, in primis i figli e le figlie.  

23/11/2016